In vista del summit dei Paesi del Sudest Asiatico, si parla di un nuovo mercato comune per tutta l’area e di un futuro da grande economia globale. Ma per arrivarci è necessario soprattutto creare una rete di comunicazioni. E, da dietro l’angolo, spunta un Dragone che ha promesso una “banca asiatica delle infrastrutture”. L’Asean (Association of South-East Asian Nations) che si riunisce in Brunei il 9-10 ottobre diventerà Aec (Asean Economic Community) entro il 2015, sulla base di uno slogan che indica le meravigliose sorti e progressive: “Una visione, un’identità, una comunità”.
Più precisamente, la nuova comunità del Sudest Asiatico nascerà nelle intenzioni dei suoi promotori con alcune alcune caratteristiche fondamentali: mercato unico, alta competitività della regione sul piano internazionale, sviluppo equo, totale integrazione nell’economia globale. In pratica, saranno eliminate tariffe e barriere doganali tra i Paesi membri.
Si tratta già di un mercato da 600 milioni di persone, con un prodotto interno lordo annuo 2,1 trilioni di dollari (2.100 miliardi) e una crescita solida: 3,9 per cento previsto per quest’anno. Il commercio interregionale rappresenta già il 25 per cento di quello globale, ma tutti sono concorsi nel dire che le potenzialità sono ben maggiori.
Così, i dieci Paesi che comporranno la futura comunità – Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia, Viet Nam, in ordine alfabetico – sono indicati, al pari dei Bric, come il futuro dell’economia globale: uno dei mercati unici più grandi del mondo.
Oggi, si mettono in risalto non tanto le tradizionali “virtù” (per il capitale, si intende) dell’area – forza lavoro e materie prime da sfruttare a buon mercato – quanto suo il contributo alla costituzione di quella classe media asiatica stimata da un recente rapporto di Ernst & Young in 525 milioni di persone al 2009 – 28 per cento del totale mondiale – e destinata a raggiungere o 3,2 miliardi entro il 2030, ossia il 66 per cento sul piano globale. D’accordo, Cina e India faranno la parte del leone, ma anche il Sudest Asiatico non scherza, si dice.
È un vero chiodo fisso, quello della classe media. È sinonimo sia di consumatori, sia di lavoratori altamente istruiti e produttivi, i classici due piccioni con una fava che attivano quel nesso virtuoso fatto di merci ad alto valore aggiunto e di acquirenti delle merci stesse. Non a caso, la Cina sta puntando tutto sulla costituzione di un’enorme ceto medio per superare i limiti del proprio sviluppo trentennale da “fabbrica del mondo”. Il piccolo borghese non vuole paccottiglia, vuole merci high-tech e sa anche produrle – si dice – consentendoti così di virare su un’economia “pulita”. E chi vive in Cina sa benissimo di quanto ce ne sia bisogno.
Il ceto medio è sinonimo di città – perché solo lì ci sono l’istruzione e il lavoro ad alto valore aggiunto – e quindi c’è grande materia di riflessione per gli urbanisti. Come saranno le future città di quest’Asia già piena di megalopoli? Vivibili, rispondono a Pechino, dove il governo si è lanciato nella ciclopica chengzhenhua, l’urbanizzazione che si vuole più sostenibile, più “sociale” – almeno nelle intenzioni – e meno caotica: bisogna creare città più piccole ed efficienti, ma soprattutto dare diritti e opportunità ai contadini, altrimenti perché dovrebbero lasciare la sicurezza di un’economia rurale di sussistenza e lanciarsi nella competizione sul mercato globale? Se funzionerà, sarà questo forse il modello per tutta l’Asia. Cominceremo comunque a capirlo tra qualche anno.
Nel frattempo, va bene l’economia pulita, va benissimo la sostenibilità, ma il cemento resta comunque un perfetto traghettatore verso il futuro.
E sì, perché quello che manca all’Asean di oggi/Aec di domani è soprattutto una solida rete di collegamenti, condizione imprescindibile per spiccare il grande volo.
E chi fa capolino a questo punto? Ma la Cina, naturalmente, che nella sua “offensiva dello charme” presso i vicini asiatici ha promesso una “banca asiatica delle infrastrutture”. L’ha fatto per bocca del presidente Xi Jinping, libero di scorrazzare indisturbato per il Sudest Asiatico dopo il forfait del frienemy Obama, trattenuto negli Usa da ben altri problemi.
Oltre a promettere investimenti diretti cinesi nell’ammodernamento delle reti di comunicazione dei singoli Paesi dell’Asean, Xi ha proposto la costituzione della banca di cui sopra e il disegno è chiaro: sfruttare le vaste risorse finanziarie della Cina e l’esperienza acquisita nella propria modernizzazione spettacolare degli ultimi decenni per esportare infrastrutture in tutto il Sudest Asiatico.
La già esistente Asian Development Bank ha stimato che il continente ha bisogno di investire "circa 8mila miliardi dollari in infrastrutture nazionali e 290 miliardi di dollari in infrastrutture regionali tra il 2010 e il 2020, per sostenere la sua traiettoria di crescita”, riporta l’Economist, e uno dei temi centrali del summit dell’Apec in Brunei sarà la “connettività” in Asia-Pacifico. Ora, considerate che le stime per la costruzione di una ferrovia da Kunming, Cina, a Ventiane, Laos, parlano di 6 miliardi di dollari, cifra che corrisponde quasi all’intero Pil del secondo Paese. Chi può metterci i soldi? Pechino, unilateralmente. Ma a questo punto, la Cina rischia però di esercitare una sorta di neocolonialismo che è sempre sul punto di far scattare gli istinti riflessi dei vicini asiatici.
Dall’evoluzione di questa storia si potrà capire se l’offensiva dello charme cinese saprà diventare anche soft power. Per ora, siamo al fascino molto “hard” del denaro.