Quattro anni fa, la Cina utilizzò il proprio quasi-monopolio nella produzione di terre rare per punire il Giappone dopo le prime tensioni intorno alle isole Diaoyu/Senkaku. Gli Usa strillarono "al lupo", ma oggi nessuno si preoccupa più e il problema sembra rientrato. Ecco come diversi fattori, tra cui l’innovazione tecnologica, possono aggirare la scarsità programmata di una materia prima. Tranne che in un caso. Ricordate le terre rare? Sono 17 elementi chimicamente simili che fanno parte della tavola periodica, più l’ittrio e lo scandio. Nonostante il loro nome, non sono rare; ma ci vogliono discreti sforzi e investimenti per estrarle, raffinarle e lavorarle. Sta di fatto che sono necessarie alla produzione di una sfilza di prodotti high-tech: dagli smartphone alle fibre ottiche, passando per le batterie delle auto ibride e i missili telecomandati.
Nel 2010, al tempo delle prime tensioni con il Giappone sulle isole Diaoyu/Senkaku, Pechino gettò il mondo nel panico bloccando il proprio export di terre rare verso Tokyo e tirando quindi un colpo basso alle eccellenze tecnologiche giapponesi. Il fatto è che, a livello globale la Cina produceva il 97 per cento di questi elementi, che diventarono quindi una formidabile arma di pressione.
Gli Usa avevano a quei tempi letteralmente chiuso la propria produzione di terre rare, consegnando un monopolio di fatto alla Cina. Quando il blocco di Pechino entrò in vigore, l’economista Paul Krugman si abbandonava a questa lamentazione dalla pagine del New York Times:
“C’è veramente da chiedersi perché nessuno ha sollevato un allarme mentre tutto ciò stava accadendo, se non altro per motivi di sicurezza nazionale. Ma i politici dicono semplicemente che l’industria Usa delle terre rare ha chiuso … . Il risultato è una posizione di monopolio [cinese] che supera i più sfrenati sogni dei tiranni alimentati a petrolio nel Medio Oriente”.
A distanza di quattro anni, i timori sembrano rientrati. Che cosa è successo? Lo spiega Eugene Gholz, un esperto texano che è anche consulente del dipartimento della Difesa. Punto di vista, il suo, che arriva direttamente dalla sicurezza Usa, ognuno ne tragga quindi le conclusioni che crede.
Secondo uno studio che porta la sua firma, il problema si è risolto per alcune ragioni fondamentali.
Primo. L’embargo contro il Giappone è stato aggirato da molti produttori cinesi. Ad esempio, qualcuno ha pensato bene di esportare terre rare combinate con piccole quantità di altre leghe. Si è poi fatto ricorso al contrabbando, con piccole compagnie minerarie, a caccia di profitti veloci e assistite da reti criminali, che sono riuscite a raggiungere un export illegale pari a 20-30mila tonnellate l’anno. Va anche considerato che per i prodotti di consumo non sono necessarie grandi quantità di terre rare: circa un chilogrammo di neodimio per ogni Toyota Prius e alcuni grammi per ciascun telefono cellulare.
Secondo. Di fronte all’emergenza, le imprese tecnologiche hanno imparato a fare a meno della materia prima cinese, spingendo sull’innovazione. E la domanda si è ridotta. L’esempio è quello della Hitachi Metals – che produce magneti – in grado di creare dispositivi equivalenti facendo ricorso a leghe in cui è presente solo una minima percentuale di terre rare. Ci sono poi quelle industrie che hanno improvvisamente scoperto di non avere bisogno di magneti così sofisticati come quelli prodotti con le terre e hanno fatto quindi ricorso a tecnologie di livello inferiore.
Terzo. Altri produttori, che prima si affidavano alla Cina, si sono sostituiti a lei: gli investimenti in arrivo da Usa, Australia e Giappone hanno rilanciato o creato dal nulla miniere in Canada, Sud Africa e Kazakhstan. L’australiana Lynas Corporation ha già iniziato le proprie consegne della materia prima estratta in casa o in Malesia, mentre la francese Rhodia ha aumentato al propria produzione e accresciuto la propria fetta di mercato europeo.
Quarto. Alla fin fine, sembrerebbe che l’industria militare Usa non abbia poi così bisogno delle terre rare. Ma anche in caso di bisogno, si può sempre faro ricorso ai quantitativo stoccati per tempo dai broker internazionali.
A oggi, conclude lo studio, la Cina detiene ancora il 70 per cento del mercato, ma la quota è destinata a ridursi ulteriormente.
Agire sulla scarsità come strumento di pressione politica sembrerebbe quindi una strategia fallimentare, tranne che per un prodotto: il petrolio. Il precedente storico più citato è la crisi petrolifera del 1973. L’embargo OPEC ha imposto prezzi elevati per quarant’anni, dato che materie prime alternative non sono finora emerse a minare la posizione dominante di petromonarchie e accoliti vari. “Ma il petrolio è da anni l’eccezione”, sostiene oggi Gholz.