Oltre a promuovere le imprese cinesi nel mondo, i sussidi di Stato tengono in piedi baracconi improduttivi che stanno diventando un problema per l’economia cinese. Dalla campagna anticorruzione di Xi Jinping e dalla riforma dello Stato di Diritto si capirà qualcosa anche sul destino dei grandi conglomerati. Parola chiave: sovraccapacità. Contrariamente al nome, che può far pensare a Superman, questa non risolve i problemi ma li crea.
In Cina, parecchie industrie ne soffrono, perché producono merci non più competitive dal punto di vista della qualità, che quindi si accumulano nei magazzini. Ma siccome creano anche occupazione, producono gettito fiscale o vanno comunque aiutate per semplici favori di consorteria, il governo centrale o locale di turno foraggia questi baracconi non competitivi e restituisce loro mercato.
Se poi per caso le imprese sono invece già competitive di loro, i sussidi di Stato le rendono ancora più forti, permettendo ai loro management politiche molto aggressive in termini di prezzi e sbaragliando così la concorrenza. Alla faccia del libero mercato.
Ora, si scopre che ben l’88 per cento delle imprese cinesi riceverebbe sussidi di Stato e, per questo motivo, molti concorrenti stranieri sono intenzionati a ricorrere al WTO.
La notizia, per altro, arriva proprio dall’agenzia Nuova Cina, la voce ufficiale di Pechino, secondo cui nella prima metà di quest’anno 32,26 miliardi di RMB (circa 4 miliardi di Euro) sono finiti a 2.235 delle 2.537 imprese cinesi quotate in borsa, per un aumento di un terzo rispetto allo stesso periodo dell’anno passato. Insomma, nonostante la volontà riformatrice dell’attuale leadership, la struttura industriale cinese ha sempre più bisogno dell’aiutino di Stato.
Più di 90 tra queste imprese – prosegue Xinhua – sono state in grado di registrare un profitto nel corso del primo semestre proprio grazie alle sovvenzioni, senza le quali sarebbero in rosso. Il risultato netto totale realizzato dalle 2.537 compagnie è cresciuto così del 10,1 per cento anno su anno, raggiungendo 1.270 miliardi di yuan, riporta l’agenzia citando i rapporti provvisori delle imprese stesse.
Gary Liu, analista di un istituto di ricerca di Shanghai, dice che nella politica dei sussidi non c’è trasparenza. Aggiunge però che nella corsa dei governi locali ad attrarre risorse sul territorio, i benefici sono spesso concessi anche a imprese straniere. Si fa il nome dell’ormai arcinota Foxconn, cioè la manifattura taiwanese che assembla gli iPhone di Apple, la quale godrebbe di politiche preferenziali a livello fiscale e per quanto riguarda l’affitto dei terreni. Tuttavia quando si parla di sussidi di Stato le imprese straniere in Cina, prese nel loro complesso, non possono che essere penalizzate.
Il problema è acuito dalle recenti misure antimonopolio varate dal governo che, secondo le camere di commercio Usa e Ue a Pechino, sono state elaborate ad hoc per colpire i player stranieri e lasciare intatti i campioni autoctoni. Il premier Li Keqiang ha di recente cercato di tranquillizzare gli uomini d’affari stranieri oltre Muraglia, snocciolando dati e dicendo che non è vero, che le norme antitrust colpiscono molto di più le imprese cinesi rispetto a quelle straniere. La polemica si trascina da settimane. Ci torneremo.
All’interno della Cina c’è un conflitto (che percorre anche il Partito) tra chi vorrebbe smantellare questo sistema basato sui baracconi improduttivi di Stato e chi invece ritiene i sussidi di Stato siano fondamentali per promuovere le imprese cinesi nel mondo o per garantire occupazione e quindi stabilità sociale.
La campagna anticorruzione del presidente Xi Jinping è trasversale a questa battaglia nel nome dell’efficienza, perché ha tra i suoi obiettivi – secondo il nostro parere – anche lo smantellamento dei poteri e delle sacche di resistenza al cambiamento che si annidano all’interno delle grandi imprese di Stato, prime beneficiarie dei sussidi.
Zhou Yongkang, l’ex zar della sicurezza caduto in disgrazia, traeva il proprio potere dai grandi conglomerati petroliferi ed è per questo interessante vedere il plenum del Comitato Centrale sullo Stato di diritto che si apre oggi. Gli osservatori si chiedono se sarà “rule of law” o “rule by law” e si tende a propendere per la seconda ipotesi: utilizzo della legge per mantenere l’ordine e spingere le riforme necessarie alla Cina, evitando però di collocare la legge al di sopra della leadership e del suo potere decisionale centralizzato.
Per giovedì, ci si aspettano annunci sia sulle riforme sia sulla sorte di alcuni pezzi grossi finiti nel maglio della campagna anticorruzione, primo tra tutti lo stesso Zhou.
Insomma, la riforma dello Stato di diritto sarà anche la nuova arma di Xi per colpire gli interessi costituiti.
Tra le prime dieci destinatarie degli aiuti governativi, sette hanno qualche santo nel cielo della politica, dice Xinhua. Il gigante energetico PetroChina è in cima alla lista con 1,42 miliardi di yuan. Il rapporto della stessa multinazionale, dal quale Xinhua trae il dato, specifica che la somma è un rimborso relativo all’imposta sul valore aggiunto; è stato concesso per ridurre le perdite derivanti dalla decisione governativa di mantenere bassi i prezzi del gas naturale per proteggere i consumatori. Il che ci fa comprendere da un lato come i sussidi possano essere sia diretti sia indiretti; dall’altro, come politica ed economia siano indissolubilmente e strettamente legate.
[Articolo scritto per Lettera 43]