Le imprese di proprietà statale sono davvero così preponderanti in Cina? La risposta è “no”, secondo Nicholas Lardy, autore di “Markets Over Mao”, un libro che si propone di sfatare un po’ di miti sull’ascesa della Cina contemporanea raccontando proprio il boom del settore privato. Ma il problema è capire cos’è "Stato" e cos’è "privato". C’è una narrativa emergente, tra gli analisti del fenomeno Cina, secondo cui la vulgata del “capitalismo di Stato” come prodotto originale delle “riforme e aperture” lanciate da Deng Xiaoping a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, non è corretta.
Secondo tale lettura, la differenza tra Cina e Unione Sovietica, ciò che permise alla prima di crescere mentre la seconda collassava, consisterebbe proprio nella presenza, oltre Muraglia di un ricco tessuto imprenditoriale latente che si sarebbe attivato non appena è arrivato il via libera dall’alto. Mentre nella Russia spopolata non esisteva una potenziale borghesia, bensì solo un’ampia classe operaia affiancata da contadini perlopiù anziani e sparsi nelle immense campagne, in Cina, da subito, il contadino si sarebbe trasformato in piccolo commerciante (dei propri prodotti), poi imprenditore e così via.
È proprio da qui che partiamo, chiedendo a Nicholas R. Lardy – economista del Peterson Institute Usa (ex della Brookings Institution), nonché membro del Council for Foreign Relations – se condivide questa lettura.
Lardy è autore di “Markets Over Mao”, celebrazione del privato in Cina.
“Assolutamente”, ci risponde. “Non solo esisteva una piccola imprenditoria privata che è stata la spina dorsale del boom cinese, ma in nessun Paese al mondo gli investimenti dall’estero hanno giocato un ruolo così importante. Circa il settanta per cento del boom cinese è stato finanziato da soldi venuti da fuori e chi ha veicolato buona parte di questi soldi?”
La risposta è semplice: la diaspora cinese nel mondo, cioè, di nuovo, i privati. Qualcosa che in Unione Sovietica era invece del tutto assente, così come porti d’ingresso di tale importanza come Hong Kong e Taiwan.
Ma veniamo a tempi più recenti. “Gli ultimi dati ci parlano di una non-concentrazione monopolistica [il monopolio sarebbe per definizione legato alla preponderante presenza statale, ndr] analoga a quella Usa e, se è vero che la Cina è definita come un’economia a forte intensità di investimenti, questi investimenti sono soprattutto finanziati dalla riserva contabile delle imprese [“retained earnings”]”.
Va inoltre aggiunto – sostiene Lardy – che lo share dello Stato nella produzione industriale è alto per quanto riguarda le utilities e il settore minerario – “monopoli naturali quasi per definizione” – ma bassissimo nelle manifatture. Secondo i suoi dati, solo il 26 per cento è in mano allo Stato.
“Se poi consideriamo l’occupazione, attualmente lo Stato contribuisce solo al 20 per cento dei posti di lavoro, che scende al 13 per cento se si considerano i lavoratori urbani. E anche l’export è in aumento nel privato”.
Ne esce la fotografia di una Cina diversa da quella che ci viene descritta di solito.
“Un altro mito da sfatare – incalza Lardy – è che le Soe sottraggano profitti al settore privato. I dati ci dicono che i profitti sono simili nel privato e nel pubblico anche se la linea del pubblico è un po’ più volatile. Il problema, se mai, è il ritorno degli investimenti: le imprese pubbliche restituiscono sempre meno e quasi non coprono il costo del capitale. C’è però una tendenza in corso: aumenta la percentuale di prestito concesso dalle banche ai privati e diminuisce quello concesso alle Soe, il che è logico, perché i privati sono più credibili nel restituire gli interessi”. Un altro mito da sfatare, dunque: quello delle banche di Stato che danno soldi solo ai loro compari dei grandi agglomerati pubblici.
A questo punto, si spezza anche una lancia per la leadership politica che ha preceduto quella di Xi Jinping-Li Keqiang. Hu Jintao e Wen Jiabao sono stati spesso accusati di avere bloccato la marcia della Cina verso il mercato, verso l’efficienza. Secondo Lardy non è così. Tutti i trend delineati precedentemente sono continuati nella loro era, alcuni sono addirittura cominciati proprio con loro.
“La differenza tra Hu Jintao e Xi Jinping è che il primo non ha mai detto che il mercato è decisivo nell’allocare le risorse, affermava che il mercato è utile per ‘supportare’ il settore statale. Oggi invece si parla addirittura di attaccare i monopoli naturali. Io non uso il termine ‘privatizzare’, preferisco parlare di ‘dislocamento’, il che significa che il settore statale non viene privatizzato, bensì messo fuori competizione da quello privato”. Per cui deve adattarsi.
Dunque, ci convince la lettura di Lardy? “Devil is in the details” dicono gli anglosassoni (come lui) e l’anomalia cinese può essere sintetizzata in una domanda che lo mette in difficoltà: cos’è “privato” in Cina? Le imprese ufficialmente private sono spesso partecipate dallo Stato, finanziate, lasciate correre nel mercato ma con il guinzaglio, di fatto solidamente patrocinate dalla sfera pubblica.
“È vero – ammette – non abbiamo abbastanza dati per tracciare una divisione netta. Tuttavia io preferisco sottolineare il fatto che il privato detta sempre più le regole imponendo anche al settore pubblico criteri di mercato, di profitto. Prendiamo il caso della presenza cinese in Africa. Qui il ruolo dello Stato è forte (gas, petrolio, infrastrutture), ma anche le imprese di Stato stanno sempre più cercando di massimizzare i profitti più che rispondere a logiche politiche”.
Insomma, anche chi non è privato, tende a comportarsi come tale.
Il dibattito resta aperto.