Torna la rubrica economica del lunedì con la notizia che da ottobre dovrebbe essere più facile, per gli stranieri, investire alla borsa di Shanghai. La Cina cerca di rastrellare denaro per la propria economia che rallenta e al tempo stesso prosegue nel processo di internazionalizzazione. Ma, come da copione, lo fa con estrema prudenza. Da ottobre, per gli stranieri sarà più facile investire alla borsa di Shanghai. La svolta decisa dalle autorità cinesi può essere spiegata in tre punti.
Primo. La Cina ha bisogno di denaro per le proprie imprese private, le quali sono state finora penalizzate da un settore del credito – le banche di Stato – che concede prestiti soprattutto ai grandi conglomerati pubblici, spesso inefficienti.
Secondo. Dal 2007, la borsa di Shanghai ha perso circa il 60 per cento della propria capitalizzazione complessiva. È tempo di tirarla su.
Terzo. La decisione di aprire maggiormente il mercato azionario si accompagna a recenti iniziative volte a una maggiore liberalizzazione dello yuan. La Cina punta ad aumentare la propria influenza internazionale con una serie di manovre congiunte.
Oggi, se per esempio in Brasile e Corea la media delle azioni possedute da investitori stranieri è del 30 per cento circa, in Cina siamo solo all’1,5. Pechino non ha voluto finora esporsi alla speculazione internazionale, e ha sempre preferito mantenere le proprie imprese in solide mani cinesi.
Del resto, le vicende dell’Occidente consigliano prudenza. Va bene attirare nuovi capitali, ma va scongiurata come la peste l’eventualità che siano poi alcuni speculatori internazionali a determinare le sorti di un’economia. In questo caso, per la logica di Pechino, ne va della sicurezza nazionale.
Il meccanismo in vigore finora consente quindi agli stranieri di trattare solo un numero limitato di azioni cinesi quotate anche a Hong Kong, oppure di ottenere una licenza speciale per investire direttamente nella Cina continentale, in un processo laborioso che richiede mesi e che è comunque limitato da quote prestabilite.
Ora, pur passando da Hong Kong, sarà possibile comprare direttamente azioni quotate solo a Shanghai.
Già a marzo, era stato ampliato lo spettro dei prodotti finanziari disponibili per gli investitori stranieri, ai quali era stato anche concesso di investire fino al 30 per cento in un’unica società (dal precedente 20 per cento). In parallelo, la People’s Bank of China aveva raddoppiato la banda di oscillazione giornaliera del renminbi (cioè la sua possibilità di fluttuare rispetto al valore del dollaro) e aveva stabilito una roadmap per la liberalizzazione dei tassi di deposito (cioè quanto i risparmi depositati in banca si possano rivalutare). Tanti aggiustamenti che suggeriscono una strategia complessiva: si vuole rastrellare denaro, dare dinamismo a un’economia che rallenta e ampliare il proprio peso internazionale senza perdere il controllo politico, centralizzato, del sistema.
I segnali di una prossima apertura vengono dal fatto che parecchi brokers internazionali hanno già destinato denaro a fondi che monitorano i titoli cinesi – i cosiddetti A-Shares – mentre alcune società di intermediazione della regione stanno assumendo nuovo personale. Da parte sua, l’indice di borsa di Shanghai, in costante calo dal 2010, è cresciuto invece del 12 per cento da inizio giugno.
Si calcola che il futuro trading attraverso Hong Kong dovrebbe portare a Shanghai circa 50 miliardi di dollari di investimenti stranieri.
Questo rafforzamento di collaborazione tra le due borse avviene proprio mentre montano le tensioni politiche tra Pechino e la ex colonia britannica. In previsione delle elezioni del nuovo Chief Executive (governatore) del 2017, un’ampia fetta dell’opinione pubblica hongkonghese chiede infatti un voto “genuinamente democratico”, a suffragio universale e con la possibilità per chiunque di candidarsi. Le autorità cinesi hanno in passato promesso il suffragio universale, e sembrano voler mantenere la parola data, ma hanno posto un limite ai candidati insediando una commissione che li filtrerà, accettando solo quelli che “amano la patria così come Hong Kong”. In breve: i candidati filo-Pechino.
Il rilancio della collaborazione tra la due borse e una ulteriore integrazione tra il mondo della finanza di Shanghai e Hong Kong stimola ulteriormente il “patriottismo” dei businessman dell’ex colonia britannica, inducendoli a schierarsi con Pechino in quel patto più o meno silente che dura dai tempi dell’handover.
Quanto agli operatori internazionali, non mancano i dubbi. D’accordo, la Cina è un mercato appetibile, ma la scarsa trasparenza e i recenti casi di malaffare societario consigliano estrema prudenza negli investimenti. Sotto esame, soprattutto, l’attendibilità dei bilanci delle imprese quotate in borsa e l’etica professionale degli intermediari.