A ottobre le riserve estere cinesi hanno toccato il minimo dal 2011. Pechino sta attingendo dal forziere per frenare il calo dello yuan, che vuole si deprezzi ma a ritmi graduali. Per questo le misure per evitare fughe di capitali contraddicono le accuse di Trump. Le riserve cinesi in valuta estera sono ai minimi da marzo 2011. La ragione è negli sforzi di Pechino di frenare e tenere sotto controllo il deprezzamento dello yuan contro il rafforzamento del dollaro. Il risultato dell’azione cinese è stato il più consistente calo delle riserve in dieci mesi.
A ottobre il forziere in valuta straniera si è assottigliato di oltre 69 miliardi, portando il totale a 3.052 miliardi. Per trovare una cifra superiore occorre tornare con la mente indietro fino a gennaio. Per di più si è trattato del quinto mese consecutivo di declino. Il picco di oltre 4.000 miliardi di dollari in riserve toccato a giugno 2016 si è allontanato. La posizione ufficiale, almeno a parole, esorta però a non fare drammi. In commento pubblicato venerdì 9 dicembre il Quotidiano del popolo ha definito «datata» l’idea del «più consistenti sono, meglio è» riferita alle riserve estere.
Al contrario, Pechino sta attingendo ai proprio forzieri per comprare yuan e impedire una discesa troppo rapida della divisa nazionale. Una strategia, che, nota l’emittente statunitense Cnbc, toglie argomenti alle accuse di manipolazione rivolte alla Cina da Donald Trump.
Su Twitter il presidente eletto ha attaccato i cinesi che sfrutterebbero il cambio per favorire le proprio esportazioni. «Ci hanno forse chiesto l’ok?» si domandava The Donald. Già in campagna elettorale le politiche monetarie decise da Pechino sono state uno dei punti salienti del programma del tycoon, assieme all’impegno di imporre dazi al 45% sulle merci made in China.
Dalla svalutazione a sorpresa decisa la scorsa estate il renminbi ha perso circa il 10% sul dollaro, che ha sua volta si è rafforzato del 3%. Il deprezzamento tuttavia deve essere graduale. La mossa della People’s bank of China decisa nell’estate dello scorso anno è stata salutata sia con favore dal Fondo monetario internazionale, perché nella direzione di dare maggior spazio alle forze di mercato nel fissare il cambio, sia, allo stesso tempo, con sospetto per il timore di una possibile svalutazione competitiva, capace di dare il via a una guerra commerciale.
L’aspettativa è che la «moneta del popolo» continui a scendere. Ipotesi surrogata dalle misure per contenere la fuga di capitali che le autorità cinesi stanno cercando di arginare da tempo. Di recente sono state approvate una serie di misure per contenere l’uscita di fondi. Nuove regole varate dalla PboC prevedono che i prestiti transfrontalieri non superino l’equivalente del 30% degli asset della società e debbano essere registrati alla Safe, l’amministrazione per la gestione delle riserve estere. Spetterà alla banche fare da guardiano.
La stessa Safe passerà in rassegna i progetti di investimento esteri che sono al di fuori delle attività core delle aziende di Pechino. Sotto la lente ricadranno gli investimenti sopra i 5 milioni di dollari, una mossa criticata dalle multinazionali straniere. Lo stesso avverrà per le operazioni di fusione e le acquisizioni sopra i 10 milioni di dollari.