Un anno fa le il crollo delle borse cinesi faceva tremare i mercati azionari globali. I listini di Shanghai e Shenzhen sono in ripresa. Sul breve periodo è risalita anche la fiducia sul recupero dell’economia cinese, trainata dagli stimoli messi in campo dal governo. Per il lungo termine però servirà altro. Nelle ultime settimane lo Shanghai Composite Index si è mantenuto costante sopra la soglia dei 3.000 punti. I dati rimandano però a letture non univoche. L’indice è al di sotto di circa il 13 per cento rispetto ai valori di inizio anno. Ma se si passa all’Msci A share, la crescita arriva a quota a +20 per cento rispetto a due anni fa. Sono livelli che dodici mesi fa il governo e le autorità di vigilanza si affannavano a recuperare. Si era allora nel pieno del crollo delle borse cinesi che si affiancava ai dubbi su un’economia in fase di transizione e in frenata che non cresceva più ai ritmi cui aveva abituato il mondo.
C’erano stati prima, infatti, mesi e mesi di rialzi sostenuti dall’esortazione governativa e della stampa di Stato a investire in borsa, che avevano portato l’indice di Shanghai a toccare il picco dei 5.166 punti il 12 giugno. Poi il tonfo. Le settimane successive avrebbero messo in discussione la capacità del Partito comunista al potere di reagire al colpo e tutelare la massa di piccoli investitori che per oltre l’80 per cento animano le piazze azionarie cinesi.
Il governo intervenne direttamente sul mercato, attraverso un fondo alimento dalla People’s bank of China per risollevare i titoli. Furono decise misure draconiane, tali da congelare il mercato e partì la caccia all’untore, individuato nelle società di brokeraggio e negli investimenti a leva. Il volto della crisi fu quello di Xiao Gang sostituito a febbraio dall’ex presidente della Agricultural Bank of China, Liu Shiyu, al vertice della China Securities Regulatory Commission, la Consob locale.
Queste le tappe di un anno vissuto pericolosamente: sul calendario si susseguirono le giornate segnate in nero. La prima botta è arrivata subito dopo il 12 giugno, altri crolli sono seguiti il 26 e il 27 giugno, portando la perdita complessiva degli indici a circa il 30 per cento del valore, con metà delle società presenti sui listini di Shanghai e Shenzhen sospese dalle contrattazioni. Un ulteriore colpo il 24 agosto a stretto giro dalla svalutazione a sorpresa dello yuan, decisa dalla PboC. Altri sobbalzi, legati principalmente al timore di un calo troppo rapido dello yuan e al forte deflusso di capitali (consegueza del tentativi di stabilizzare la moneta) si sono sentiti a gennaio, tra il 4 e il 7.
Si arriva così all’oggi. L’Union Bancaire Privée prevede una volatilità prolungata: «La mancanza di fiducia tra gli operatori di mercato rende il sentiment generale per gli investimenti più orientato al breve periodo». Le eventuali opportunità verranno più avanti. Intanto giovedì 18 agosto Moody’s ha rivisto al rialzo le stime di crescita per il 2016 e il 2017, portandole rispettivamente a +6,6 per cento e a +6,3 per cento. Lo stesso aveva fatto a luglio Standard & Poor’s e così il Fondo monetario internazionale. In tutti i casi il giudizio è legato alle misure di stimolo fiscale e monetario messe in campo dal governo e della People’s bank of China. Non tutti però sono concordi sugli effetti.
«I dati deludenti pubblicati venerdì 12 agosto, compresi quelli sulle vendite al dettaglio, sugli investimenti in asset fissi e sulla produzione industriale suggeriscono che le spinte monetarie e fiscali non sono riuscite a generare un sostanziale recupero e la stabilizzazione della crescita potrebbe vacillare», commenta James Butterfill, capo della ricerca per ETF Securities, nel notare che ulteriori stimoli potrebbero essere accolti positivamente dalla borsa, ma al contempo influire eccessivamente sulle valutazioni dei titoli. A partire dallo scorso novembre la dirigenza ha tentato di dimostrare le proprie capacità di gestione. Da allora è stato pubblicato il nuovo piano quinquennale, che entro il 2020 punta a raddoppiare il pil rispetto ai livelli del 2010, ed è stata intensificata la promozione della One belt One Road, il rilancio della Via della Seta attraverso programmi di investimento infrastrutturali.
Il deprezzamento dello yuan se da un lato ha scatenato il timore di una svalutazione competitiva dall’altro ha assecondato la richiesta di l’allentare il controllo governativo sull’andamento del renminbi. I cinesi hanno così incassato l’ingresso della propria divisa tra i Diritti Speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale. L’ultimo segnale di fiducia che Pechino ha voluto dare risale all’inizio della scorsa settimana con il via libera alla connessione tra le borse di Shenzhen e di Hong Kong. Il link apre il capitale delle quotate innovative della seconda borsa cinese agli investimenti stranieri (che per Hsbc potrebbero però essere tiepidi).
I sei mesi che seguirono il lancio dell’analogo collegamento tra l’ex colonia britannica e Shanghai a novembre del 2014 coincisero infatti con il rally dei due listini cinesi (Shanghai guadagnò il 74 per cento e Shenzhen l’83 per cento) prima della brusca frenata di metà 2015. «Alla luce di questa esperienza, ci attendiamo che lo Shenzhen-Hong Kong Stock Connect abbia un impatto positivo sul sentiment del mercato azionario cinese, anche se prevediamo reazioni meno esasperate dell’ultima volta», ha commentato Jian Shi Cortesi di Gam.
Con queste credenziali la Cina ospiterà il vertice G20 del 4 al 6 settembre ad Hangzhou. Ma soprattutto si affaccia con numeri sulla carta più solidi al Plenum del Pcc di ottobre, nel quale si inizieranno a delineare i cambi nella dirigenza che si concretizzeranno nel congresso del prossimo anno.
[Scritto per Milano Finanza]