Il Gasdotto centroasiatico è lo strumento con cui Pechino attua un’ampia strategia economica e geopolitica in Asia Centrale. Paradossalmente, i problemi sorgono proprio quando il grande tubo arriva in Cina, in Xinjiang, il turbolento "Far West del Celeste Impero" teatro di violenze recenti e meno recenti. «Follow the money», dice Gola Profonda ai due giornalisti di Tutti gli uomini del presidente, il famoso film che ricostruisce lo scandalo Watergate. Oggi si può liberamente riadattare in «follow gas», dato l’attuale valore della materia prima in oggetto.
E seguiamolo, dunque, il gas.
Si chiama Galkynysh, cioè «risveglio» in turkmeno. È un enorme giacimento di gas naturale – tra i primi cinque al mondo – da cui parte il gasdotto Turkmenistan-Cina, noto anche come Asia Centrale-Cina. Costruito in soli 18 mesi (record) e inaugurato nel dicembre 2009, il grande tubo gestito dalla China National Petroleum Corporation (Cnpc) è infatti una sorta di via centrale attorno alla quale si sviluppano molteplici diramazioni. Entro il 2015 trasporterà 60 miliardi di metri cubi l’anno.
La via della Seta non è mai stata una "via", bensì una rete di corridoi che si intrecciavano in Asia centrale come la tela di un ragno, per poi sfociare a Oriente e Occidente. Così è anche oggi, nella sua rinnovata versione «tubifera». Il gas turkmeno arriva infatti, grazie all’azienda petrolifera di Stato cinese, in Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Tagikistan e perfino in Afghanistan. Potrebbe prolungarsi fino al Mar Caspio, dove si dice che la Cina vorrebbe aprire pozzi offshore.
Quei pozzi, sono per altro le stesse risorse su cui l’Europa aveva precedente messo gli occhi con i vari Nabucco e gasdotti trans-Adriatici, ma perdendosi poi per strada tra crisi economiche, lungaggini burocratiche, distinguo e sottigliezze politiche.
La Cina no, la Cina agisce pragmaticamente e fa affari con tutti, inonda di denaro i «nuovi Khan» al potere negli Stati ex-sovietici e si porta avanti con i compiti.
Pechino ha già comprato alcune aziende sussidiarie della KazMunaiGas, la società energetica di Stato kazaka, e di fatto controlla la maggior parte dell’export petrolifero del Paese su cui regna incontrastato dal 1990 Nursultan Nazarbaev.
Parentesi: «follow gas», dicevamo. Nel grande gioco centroasiatico, non è forse un caso che le autorità italiane abbiano rispedito in fretta e furia Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako (ex banchiere ed ex ministro dell’Energia) Mukhtar Ablyazov, tra le braccia dello stesso Nazarbaev. Chiusa parentesi.
Tornando al «grande tubo» cinese, oltre a strumento economico, appare dunque anche strumento geopolitico di Pechino, che dispensa così energia a mezza Asia centrale. Uno dei fili di quella «collana di perle» che rappresenta la strategia politico-economica di espansione cinese: pacifica, fondata su tante basi commerciali (perle), tenute insieme da infrastrutture (la collana).
Il gasdotto pone Pechino in forte competizione con Mosca. Fino a poco tempo fa era infatti la russa Gazprom a veicolare il gas kazako e turkmeno in giro per il mondo, stabilendo prezzi e tariffe.
La Cina oggi offre un’alternativa e il pensiero corre immediatamente all’Africa, dove l’ingresso massiccio degli investimenti cinesi ha messo sulla difensiva vecchi e nuovi colonialismi occidentali. Anche in Asia, il blocco Usa-centrico è posto sul chi va là dall’azione di Pechino. Cosa succederà dopo il ritiro delle truppe d’occupazione dall’Afghanistan? Il terreno resterà sgombro per le pioggia di soldi, uomini e merci cinesi?
Il progetto più ambizioso della Cnpc sembra infatti riguardare proprio il nord della provincia di Sar-e-Pul, in Afghanistan. Qui, la multinazionale ha già in concessione i pozzi di Kashkari, Bazarkhami e Zamarudsa, i primi a pompare petrolio dall’intervento a guida Usa del 2001. Il greggio viene trasportato da convogli attraverso il confine turkmeno per la raffinazione. Ma è intenzione cinese quella di integrare l’Afghanistan nella rete energetica eurasiatica attraverso una deviazione del gasdotto e di costruire quindi una raffineria nel Paese. Dietro le quinte, una fitta attività di public relations con le milizie locali e una pioggia di denaro per le autorità della regione. Molti analisti ritengono che la Cina sia già prontissima per capitalizzare il futuro ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Secondo proprie caratteristiche, si intende.
Infine il gasdotto arriva in Xinjiang, il «Far West» del Celeste Impero. Ed è proprio qui, paradossalmente in casa propria, che il Dragone vede la strategia del gas complicarsi, perché la turbolenta regione autonoma dell’estremo Occidente cinese è stata negli ultimi mesi teatro di alcuni episodi di violenza piuttosto gravi che rischiano di destabilizzare tutta l’area. Il problema è etnico-religioso, con l’originaria popolazione uigura, di religione musulmana, da una parte; gli han, l’etnia maggioritaria in Cina, dall’altra.
A fine giugno, in due diversi attacchi di «uomini armati» a Turfan e Hotan, sarebbero morte una quarantina di persone secondo fonti ufficiali, che diventano oltre cinquanta se si considera un precedente episodio che risale ad aprile. Non sono chiari i contorni degli episodi, ma le stesse fonti definiscono gli aggressori «terroristi» ed «estremisti religiosi», mentre le associazioni di uiguri all’estero imputano alla governance delle autorità cinesi le tensioni nell’area.
Wang Dahao, un giornalista han nato in Xinjiang, ha recentemente scritto che la questione etnica della regione non si risolve con la tradizionale strategia «bastone e carota» messa in atto da Pechino: repressione dura, da una parte, e una pioggia di soldi per garantire lo sviluppo in termini di Pil, dall’altra.
Wang parla di «mutare radicalmente l’attuale equilibrio di interessi», cioè «rimodellare e intraprendere una nuova pianificazione nella distribuzione del potere e della composizione etnica, religiosa, culturale e demografica». Sono i processi decisionali e le responsabilità a dover essere redistribuiti, non solo il denaro.
Si tratta insomma di coniugare uguaglianza (garantire lo sviluppo per tutti) e diversità (preservare le specificità etniche), come ci ha detto di recente anche Wang Hui, uno degli intellettuali di riferimento per la «nuova sinistra» cinese. Ma il percorso appare lungo e impervio.
Per ora, la Cina si trova nel paradosso di sapere benissimo che fare in mezza Asia Centrale e di non avere al contrario un’idea chiara di cosa fare in casa propria; con un gasdotto dall’enorme valore non solo economico che arriva in una regione estremamente irrequieta e senza una politica per pacificarla.