La megalopoli JingJinJi si staglia all’orizzonte, mentre l’annuncio del settimo anello delle circonvallazioni pechinesi lascia intendere quale sarà il suo sistema nervoso: 940 chilometri di asfalto per “decongestionare” la città da 22 milioni di abitanti, prossimamente 130 milioni. Cosa c’entra questa creatura dell’antropocene con l’urbanizzazione “sostenibile” proclamata dalla leadership cinese? Discutiamo di riforme e urbanizzazione con il direttore della Banca Mondiale in Cina. Klaus Rohland è il direttore della Banca Mondiale per Cina, Mongolia, Corea, Asia Orientale e Pacifico. Nel suo ufficio all’interno del World Trade Center di Pechino, metafora della Cina proiettata verso un futuro da superpotenza, abbiamo parlato delle riforme cinesi e soprattutto di urbanizzazione, pochi giorni prima che le autorità rilanciassero il progetto della futura megalopoli e del settimo anello.
Più gente in città – secondo Pechino – significa più consumi, più prodotti ad alto valore aggiunto, più innovazione. È un passaggio obbligato per abbandonare finalmente lo status di “fabbrica del mondo” e divenire economia avanzata. Ma il punto è: come deve essere questa città?
Lo scorso gennaio, è uscito “Urban China – Toward efficient, inclusive, and sustainable urbanization”, un rapporto congiunto proprio della World Bank e del governo cinese, curato dallo stesso Rohland [scaricalo gratis]. Rivela identità di vedute sulla necessità di creare una Cina sempre più urbana; ma la stanza dei bottoni del capitalismo globale e il governo cinese sembrano avere opinioni contrastanti su alcuni aspetti non da poco.
A che punto siamo nel processo di riforme in Cina?
È in movimento. A novembre hanno gettato le basi, a marzo l’hanno perfezionato e adesso stanno iniziando a fare cose concrete. Pezzo per pezzo sta svelandosi.
Prendiamo la questione fiscale. Alcune città e province hanno recentemente lanciato le proprie obbligazioni. C’è un enorme programma da attuare, richiede tempo.
Partiamo proprio da qui. Questi bond locali sono davvero così importanti?
Il debito delle amministrazioni locali dipende dal fatto che non hanno abbastanza risorse fiscali per coprire le spese e quindi ricorrono alla conversione dei terreni: fanno soldi trasformando i terreni rurali in urbani. Hanno anche istituito i propri veicoli finanziari, che finiscono inevitabilmente nel credito ombra. Tutto questo crea un enorme rischio per l’intero settore finanziario e fiscale del Paese. Permettere a città e province di emettere le proprie obbligazioni è il modo migliore per finanziarle. Non può certamente funzionare per tutti i governi locali, perché sono necessarie stabilità e trasparenza, ma le dieci città e province selezionate finora mi sembrano offrire garanzie (Zhejiang, Jiangsu, Shandong, Guangdong, Pechino, Shanghai, Shenzhen e altre tre ancora sconosciute, ndr). Sia le persone qualunque sia i grandi gruppi possono acquistare titoli. Questa soluzione funziona anche per chi vuole investire i propri risparmi, dato che al momento il mercato azionario è troppo volatile e gli interessi bancari bassi. E infine, i bond potrebbero anche essere un buon antidoto alla bolla immobiliare.
Per ridurre la bolla immobiliare e risollevare i bilanci dei governi locali voi suggerite anche di introdurre una tassa sulla proprietà. Il governo cinese la sta sperimentando a Shanghai e Chongqing, ma sembra cauto sull’ipotesi di allargarla ad altre città. Cosa ne pensa?
Aumentare le tasse non è mai popolare in tutto il mondo e qui appare perfino più difficile, a causa della tipologia dei proprietari di casa. Immaginiamo una tassa dell’uno per cento sul valore di un immobile. È evidente cosa accadrebbe agli appartamenti del centro di Pechino, il cui valore è cresciuto negli anni fino a – diciamo – un milione di dollari, anche se non sono particolarmente lussuosi. Nel loro caso, l’imposta di proprietà dell’uno per cento equivale a 10mila dollari. Ora, probabilmente i proprietari hanno acquisito questi appartamenti nei primi anni Novanta, quando sono stati convertiti da proprietà dello Stato a proprietà cooperativa. Ma dato che il loro reddito è aumentato meno del valore della proprietà, queste persone non possono certo permettersi una tassa del genere, anche se magari guadagnano 30.000 dollari l’anno che è già tanto per gli standard di Pechino.
La Cina sta anche cercando di cambiare il sistema duale dei terreni – rurale-urbano – e l’Hukou, la residenza obbligatoria che vincola le persone al luogo dove risiedono. A che punto siamo?
Molte città stanno sperimentando nuovi progetti pilota sulla questione dell’Hukou: il problema è come dare ai lavoratori migranti l’accesso ai servizi sociali, integrandoli così nel tessuto urbano. La sperimentazione luogo per luogo è un modo molto cinese di fare riforme e dà anche al governo centrale la possibilità di affrontare il problema Hukou con un approccio graduale e differenziato. Da qui a dieci anni, tutti i residenti urbani avranno uguale accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e ai servizi pubblici. Ma non si può attuare questo cambiamento dall’oggi al domani, perché ci vogliono un sacco di investimenti nelle infrastrutture pubbliche e si deve inventare un nuovo sistema di gestione.
L’altra parte del problema consiste nell’esistenza di un sistema duale della terra: ci sono i terreni urbani che sono di proprietà dello Stato e quelli rurali che sono di proprietà delle cooperative degli agricoltori. Queste due tipologie sono governate da principi differenti e, soprattutto, hanno diverso valore.
Così, nelle aree ai margini delle città, il governo requisisce i terreni rurali e compensa i contadini per il loro prezzo; poi li riconverte in lotti urbani e il loro valore aumenta vertiginosamente in un battito di ciglia, così gli agricoltori si sentono derubati perché pensano che potevano guadagnare di più. È questo il motivo che sta dietro a molti conflitti sociali. Ma il governo non ha altra risorsa per fare soldi e quindi torniamo alla riforma fiscale: hanno bisogno di più soldi per abbandonare la politica della terra che hanno praticato finora.
Mi sembra di capire che la Banca mondiale suggerisca l’abolizione dell’Hukou, mentre il governo cinese abbia un approccio più graduale. Non pensa che una soluzione drastica possa portare alla creazione di baraccopoli urbane?
La grande sfida delle riforme in Cina consiste nell’introdurle e poi nel riuscire ad attuarle e nessuno sosterrebbe di farlo in men che non si dica. Ma penso comunque che l’esito finale debba essere quello di far sì che ogni cittadino cinese possa muoversi dove gli pare, come accade in tutto il mondo.
Le riforme sono come una grande matassa di cui è difficile trovare il bandolo. Come giudica la strategia adottata finora dal governo cinese? Hanno affrontato da subito tutti i problemi o hanno cominciato da alcune priorità?
Questa è la grande sfida per i responsabili politici: possono fare le riforme, ma nessun policymaker può farle tutte insieme. Osservando quelle cinesi, si comprende come siano del tutto interdipendenti. Se si vuole affrontare il problema della terra, per esempio, si deve rendere accessibili a governi locali altre fonti di reddito. Così, la riforma fiscale e quella della terra sono indissolubilmente legate insieme. Certo, bisogna affrontare anche altre riforme, come l’Hukou, ma si può farlo con più calma. Dunque, prima fanno le cose sia urgenti sia importanti e poi quelle “solo” importanti. La riforma della terra è urgente per una questione di uguaglianza e quella fiscale per via del problema finanziario. E infatti stanno iniziando da lì.
Lei definisce l’urbanizzazione cinese, così come si è sviluppata finora, un processo a macchia d’olio. Sostiene che oggi è necessario un modello più efficiente. Può spiegare meglio questo concetto?
È stato un processo a macchia d’olio perché le città finora erano spinte a investire ai margini della città stessa, convertendo la terra. Se ti muovi verso le periferie di Pechino, vedi improvvisamente enormi edifici che sorgono su questi terreni convertiti. È così che i city-manager hanno la tendenza ad aumentare le dimensioni della città in un processo tentacolare. Se si guarda ai numeri, le città del mondo crescono generalmente in dimensioni parallelamente alla popolazione: più gente significa più spazio. In Cina le città crescono più in dimensione che in popolazione. Noi sosteniamo che le due crescite debbano essere allineate. La soluzione per farlo è la densità: città più dense con gente che sta più vicina. È una questione di efficienza.
Su questo punto sembra proprio che ci sia un dissenso tra la Banca Mondiale e il governo cinese. Lei sostiene che c’è tantissimo spazio sprecato e che quindi bisognerebbe rendere le città sempre più dense. Ma potrebbe suonare strana alle orecchie di molte persone l’idea che queste megalopoli debbano essere ancora più dense.
Molte persone associano la densità ai grattacieli. Ma se si guarda fuori dalla finestra qui a Pechino si vede un sacco di spazio inutile attorno agli edifici principali, soprattutto quando ci si avvicina alla Città Proibita. I marciapiedi sono enormi, io ritengo sia possibile avvicinare i palazzi alla strada, come avviene nel resto del mondo. Se si confronta Pechino con Tokyo, Seul o Parigi, emerge che quelle città sono molto più dense. La città, vista dall’alto, sembra un parco; e i parchi sono generalmente belli. Ma questo non è un parco, è semplicemente spazio non utilizzato. Densità non significa grattacieli, ma significa organizzare meglio lo spazio e rendere la città più vivibile. Ad esempio, camminare d’estate sul viale della Lunga Pace non è piacevole: fa caldo, non c’è ombra e ci si sente soli su quei grandi marciapiedi come in un deserto. Immagina di vedere un amico dall’altra parte della strada: prendi il cellulare, lo chiami e gli dici “vediamoci tra mezz’ora al prossimo tunnel o passaggio pedonale”. D’inverno invece è troppo freddo.
La densità rende la città più vivibile e le dona quel non so che di europeo.
Questo è più un problema culturale o materiale?
Penso in sintesi che non si debba far progettare le città agli ingegneri, dal momento che a loro piacciono i palazzi enormi e le strade larghe. Non sono città progettate secondo il punto di vista delle persone che le abitano.
Ma Pechino non è mai stata progettata per le persone. È stata progettata per l’Imperatore.
Però esistono ancora quei bellissimi hutong (tipici vicoli di Pechino, ndr). Non sono perfetti in termini di comfort, ma offrono socialità, i vicini si conoscono. La coesione sociale è data dalla densità.
Più in generale: su quali punti la Banca mondiale e la leadership cinese sono d’accordo e quali sono le principali differenze?
Abbiamo scritto il rapporto "Urban China" insieme e non riesco a vedere molte differenze. Il dissenso principale sta nel fatto che il governo cinese si focalizza soprattutto sugli investimenti per l’urbanizzazione, mentre noi assumiamo il punto di vista del cittadino. Loro pensano a quanti chilometri di strade o di metropolitana siano necessari e così via, mentre noi facciamo un passo indietro e guardiamo alla corretta progettazione delle città, il che significa anche l’aspetto sociale e ambientale. È un modo diverso di guardare alla stessa cosa: se posso permettermi, azzarderei che noi abbiamo una visione più complessiva.
Che cosa c’è dietro questo approccio diverso?
Penso che se uno è responsabile degli investimenti, definisce ogni problema in funzione degli investimenti. Il nostro punto di vista può essere più distaccato.
Dunque possiamo dire che la Banca Mondiale non è d’accordo con il titanico progetto cinese di costruire 200 nuove città?
Non me la sento di criticare l’intero progetto, probabilmente alcune di queste città sono necessarie. Ma quello che noi sosteniamo è che c’è ancora molto da fare con le città già esistenti. Uno dei problemi arrecati dalle città satellite è che destabilizzano la città vecchia, perché molte funzioni vengono sottratte al suo nucleo centrale. Ma se si vuole avere una “urbanizzazione incentrata sull’uomo” (definizione del governo cinese, ndr) bisogna conservare intatto il centro storico, il che è anche questione di patrimonio culturale. Si può immaginare una serie di città satellite attorno a Roma che sottraggano al centro la sua ragione d’essere?
Che cos’è una “eco-city”, allora? Se ne parla molto, nel nuovo processo di urbanizzazione cinese, ma non è ancora chiaro. Ho visto una città del genere in costruzione vicino a Turpan, in Xinjiang. Il primo edificio costruito è un enorme palazzo del governo con un sacco di spazio intorno, poi le villette a schiera con pannelli solari sul tetto. Ma non sono così sicuro che ci sia una visione globale dell’impatto ecologico e culturale di questa nuova città sulla vecchia Turpan o sulla vicina Valle dell’Uva, per non parlare del problema dell’acqua in quella zona desertica.
Una città ecologica dovrebbe risolvere il problema dell’alloggio in maniera organica e preservare il legame con l’ambiente preesistente. Deve essere il più vicino possibile al nucleo storico della città e identificarsi con il suo patrimonio culturale. Bisogna anche considerare la distanza tra lavoro e abitazione perché una delle chiavi per una città vivibile è che una massa critica di persone viva dove lavora e lavori dove vive. Altrimenti avremo città morte dove la gente si rifugia alla sera, dopo il lavoro. Ma se si definisce il problema semplicemente come la creazione di uno spazio per 50mila nuovi abitanti, non lo si comprende in prospettiva più ampia. È necessario ribaltare il modello: partire dalla visione più ampia e poi definire le priorità in base a essa.
Finora le è già capitato di trovare esempi di urbanizzazione cinese che vadano incontro a questi requisiti?
Ci sono alcune città che stanno cercando di avere questa prospettiva più ampia, per esempio Guangzhou e Shanghai che stanno restaurando invece di radere al suolo. Si tratta di recupero architettonico, non di progetti nuovi, ma ricordiamoci che altrove si è semplicemente proceduto demolendo. La prima cosa da fare, quando si parte con un nuovo progetto di costruzione, è la mappatura del patrimonio culturale. Oggi, molte amministrazioni sono giunte alla conclusione che la costruzione di nuove città satellite non è la migliore idea.
Generalmente la Banca Mondiale sostiene la teoria della “mano invisibile” del mercato, che si autoregola con un limitatissimo ruolo del governo. Sembra, invece, che nello scenario cinese lei suggerisca un certo controllo da parte dello Stato su un processo che altrimenti diverrebbe totalmente caotico.
Molte persone hanno questa opinione su di noi: l’istituzione del libero mercato. Non è corretta, probabilmente non siamo mai stati in grado di comunicare questo punto. Se si guarda alla storia, i mercati allocano efficientemente le risorse, ma per farlo hanno bisogno di un governo forte, il che non significa un governo “grande”. Il mercato ha bisogno di regolamentazione perché nessun mercato è veramente “libero”. Se esiste Wall Street, deve anche esistere un organismo di controllo delle borse, che verifichi il loro corretto funzionamento. E anche nel caso di un piccolo mercato di frutta e verdura dietro l’angolo, è necessario assicurarsi che ci siano alcune norme sanitarie. Ecco il ruolo dello Stato. Il governo non dovrebbe svolgere attività economiche, ma sorvegliarle. Questo significa una forte leadership, una forte magistratura, forti organismi di controllo per i mercati. Ma date queste condizioni, lasciate che siano i privati a fare business.