Dietro l’inaffidabilità delle statistiche cinesi, la struttura particolare del potere: i dati positivi fanno fare carriera ai funzionari, così il Pil cresce e la diseguaglianza scompare. Sulla carta. La via d’uscita, in attesa di cambiare il modello economico e la governance del territorio, sono le ricerche indipendenti. Il caso più eclatante è quello della diseguaglianza. Secondo i dati ufficiali, la Cina avrebbe un indice Gini – quello che assegna uno “0” alle società perfettamente uguali e un “1” a quelle totalmente diseguali – simile a quello degli Usa (0,47), mentre secondo una ricerca indipendente il tasso reale sarebbe 0,61, che per definizione significa una società sull’orlo della rivoluzione.
Una differenza non da poco, soprattutto nel Paese divenuto seconda economia mondiale dopo trent’anni di sviluppo turbocapitalista accelerato; luogo così frenetico che un giorno sembra sul punto di conquistare il mondo e, quello successivo, nell’imminenza del crollo repentino e fragoroso (almeno, secondo i media occidentali).
Dove sta l’inghippo dei numeri cinesi? Un articolo comparso sull’ultimo numero di Science ritiene che il problema consista nell’enorme valore “politico” dei dati. Se ne raccolgono a tonnellate, ma quando sono sensibili filtrano in maniera controllata. “Sensibile”, in cinese si dice mingan, parola composta da due caratteri che significano rispettivamente “intelligente” ed “emozione”: l’intelligenza bilancia l’emozione o, se preferite, ciò che ha un forte impatto emotivo va dosato con intelligenza.
Così, l”Istituto Nazionale di Statistica cinese liquida la ricerca del professor Gan Li sul reddito dei cinesi, quella che rivelava un allarmante indice Gini di 0,61: si basa su un campione troppo limitato – dicono – e su interviste fatte da studenti alle prime armi. Tuttavia, il medesimo Istituto non spiega i criteri utilizzati per la propria, di ricerca: quella del famoso 0,47 che, seppure allarmante, dimostrerebbe che la disuguaglianza in Cina è in calo rispetto all’ultima rilevazione del 2008. Bisogna crederci e basta, perché l’Istituto non dichiara come ha selezionato il campione, non pubblica i dati completi a livello individuale e neppure il tasso di non risposta alle domande degli intervistatori.
Così, in una Cina sempre più complessa, dove si moltiplicano le voci fuori dal coro, i media cinesi e la Rete moltiplicano all’infinito i risultati del professor Gan e riportano invece con una certa freddezza, o con ironia, i dati ufficiali.
L’effetto diventa quindi contrario rispetto alle intenzioni dell’Istituto di Statistica: lo 0,61 del professore indipendente diventa “la verità”, a prescindere che lo sia poi davvero, e l’effetto panico è assicurato: la diseguaglianza cinese è da allarme rosso.
È una storia, questa, che ci dice come in Cina le statistiche non stiano al passo della stessa società che dovrebbero descrivere. Per inciso, l’Istituto Nazionale di Statistica è ormai definito sui social media cinesi “ufficio del Cazzeggio”.
A distorcere i dati contribuisce la particolare struttura del sistema politico del Celeste impero. La Cina è un Paese sia estremamente centralizzato, sia estremamente decentralizzato. Da un lato, c’è il Partito unico e il fatto che i principali leader, anche a livello di territorio (come i governatori delle province), sono nominati dall’alto. Ma d’altra parte i poteri locali, soprattutto ai due livelli più bassi – contee e città – forniscono la maggior parte dei beni e dei servizi pubblici: istruzione, sicurezza sociale e così via. Gestendo un’enorme quantità di risorse, i leaderini, i “piccoli re”, hanno quindi un enorme potere discrezionale e di controllo. Tuttavia, se vogliono far carriera e puntare a Pechino, devono portare risultati “nero su bianco” ai livelli superiori: e in questo, sono tra l’altro in costante competizione orizzontale tra di loro.
Da quando Deng Xiaoping ha sostituito il risultato economico alla fedeltà politica di epoca maoista come criterio di giudizio, è la capacità di creare ricchezza a determinare la carriera di un funzionario. È quindi facile immaginare che valore fondamentale abbiano i numeri, le statistiche.
Io, capo della contea tal dei tali, come posso permettermi di lasciar trasparire che da queste parti la diseguaglianza è aumentata invece che diminuire? Ed ecco che lo stesso funzionario utilizza le molte leve che ha a disposizione per fare emergere solo dati gratificanti.
La qual cosa, moltiplicata per le 31 province, 333 prefetture, 2858 contee, 40.858 città e un numero incalcolable di villaggi della Cina, restituisce a Pechino dati parziali. Per usare un eufemismo. Non è necessario rivelare il falso, cosa che potrebbe farti incorrere in qualche reato penale: basta mettere nero su bianco alcuni dati e perderne casualmente per strada altri.
E lo scienziato sociale serio che fa? Se i dati ufficiali non bastano o sono fuorvianti, non resta che il self-help. Il metodo che si avvicina maggiormente a una fotografia reale della situazione è dunque quello della ricerca sul campo, in proprio, laddove possibile.
Ivan Franceschini è un ricercatore italiano che si occupa delle condizioni di lavoro nelle fabbriche in Cina, tra cui anche quelle nostrane che qui delocalizzano.
“Per quanto riguarda i dati ufficiali – dice – si presentano due problemi. Il primo è che sono quasi sempre macroscopici, non danno cioè l’immagine reale delle situazioni specifiche. Il secondo è che sono spesso contraddittori al loro interno”.
Lui ha dunque deciso di agire per conto proprio attraverso interviste condotte fuori dalle fabbriche e supportato in questo da collaboratori cinesi. Così facendo, e incrociando poi i suoi risultati con quelli macro delle statistiche ufficiali, ritiene di potersi fare un’idea più chiara della situazione. Sta attualmente lavorando soprattutto su dati che riguardano la percezione soggettiva dei lavoratori cinesi rispetto ai propri diritti: informazioni qualitative che non compaiono assolutamente nelle ricerche ufficiali.
È lui stesso a riconoscere che tuttavia rimane il problema del campione: troppo limitato? Troppo localizzato?
Il problema dei dati scatena un effetto domino lungo la filiera del potere cinese: come si può affrontare seriamente l’inquinamento se la leadership di Pechino non sa neppure quanto ce ne sia davvero? Poi, a catena, la distorsione si ripercuote sul piano internazionale: di quali misure per contrastare il global warming possono discutere, Barack Obama e Xi Jinping, se non si capisce neppure quale sia il reale impatto della Cina?
Così, nel 2009, il governo ha introdotto un regolamento che prevede punizioni per chi fabbrica numeri farlocchi o induce altri a farlo. Inoltre, mentre si spediscono ispettori a verificare la raccolta dei dati che convergono poi all’Istituto Nazionale di Statistica, si strizza un occhio alla rottura del monopolio dell’istituto stesso, soprattutto sulle ricerche micro, localizzate, in profondità.
Sono così sempre più numerosi progetti portati avanti da singole università o da consorzi accademici.
Ritornando all’articolo di Science, si cita la “Ricerca sociale generale della Cina”, un progetto dell’Università del Popolo che indaga su temi come la religione, la diseguaglianza sociale e la salute. L’Università di Pechino sta invece effettuando un ampio studio su un campione di 60mila persone, che riguarda tutti gli aspetti della vita delle famiglie: dalla cura dei figlia alla partecipazione alle elezioni locali.
I dati si fanno così sempre più attendibili, dicono molti esperti. Basta non farli passare per le mani del funzionario di turno.