Troppi soldi spesi male e così scatta l’operazione controllo sul debito dei governi locali. La Cina si scopre esposta a una crisi simile a quella dei mutui subprime in Occidente e preme sull’acceleratore della riforma economica. Farà in tempo? Sembra che i nodi siano venuti al pettine. Anzi, per continuare la metafora parrucchiera, sembra proprio che alla ciocca più ingarbugliata, quella più difficile da sciogliere, si voglia dare una sana sforbiciata.
Il dipartimento Nazionale di Controllo (Shenji shu) – cioè la Corte dei Conti cinese – ha cominciato una vasta operazione di monitoraggio del debito pubblico dai contorni ancora poco chiari ma che rivela la crescente preoccupazione per l’aumento del buco nero che rischia di destabilizzare la seconda economia del mondo.
È un fatto inaspettato per chi pensa alla Cina come a un enorme forziere di valuta straniera metodicamente accumulata grazie al boom fondato sull’export degli ultimi trent’anni, ma bisogna fare un distinguo.
La Cina continua ad avere le tasche piene di valuta straniera, sì, ma è di fatto in debito con se stessa, perché i soldi che investe nel ciclo economico interno sono perlopiù spesi male, non tornano indietro sotto forma di profitti, tant’è che una delle “tre sorelle del rating”, l’agenzia Fitch, ha già declassato il debito del Dragone a inizio aprile: da AA- ad A+.
Il problema, scrivevamo all’epoca, è che lo Stato, attraverso le banche (di Stato pure loro), mette in giro una massa di denaro che finisce in investimenti speculativi o, comunque, improduttivi, come (soprattutto), la grande bolla immobiliare. Una massa che potrebbe ormai avere raggiunto il 198 per cento del Pil e che è in costante crescita.
I governi locali sono il motore immobile che scatena un circolo vizioso. Cronicamente in debito perché devono sobbarcarsi gran parte delle spese sul territorio – dai lavori pubblici allo straccio di welfare che ancora persiste a macchia di leopardo – ricorrono alla speculazione immobiliare come metodo sicuro per fare cassa, grazie alla crescita inarrestabile dei prezzi delle case. Questo, nonostante i tentativi del governo di Pechino di sgonfiare la bolla.
Così, utilizzano l’unica risorsa a loro disposizione, la leva politica, per espropriare terre agricole e destinarle a nuovi progetti “di sviluppo” che dello sviluppo hanno poco e della speculazione tantissimo. Ma sul lungo periodo le risorse si perdono perché non destinate a investimenti più produttivi (innovazione, imprese high tech, protezione del patrimonio storico-architettonico e ambientale) e i governi locali cercano a ogni modo di accedere a nuovo credito per continuare a colmare i buchi di bilancio. Così facendo, succhiano da un lato risorse alle banche – cioè allo Stato – e dall’altro alimentano il mercato ombra del credito, cioè il sistema finanziario parallelo e privato che negli ultimi anni è proliferato, rendendo ancora più instabile il sistema.
Non è che Pechino non ci abbia già provato a porre fine al fenomeno. Tecnicamente, la legge di bilancio vieta alle amministrazioni locali di indebitarsi direttamente, ma queste ricorrono a veicoli speciali di finanziamento oppure a prestiti da aziende private, in accordi oscuri ma comunque ad interessi altissimi, con i soldi che poi finiscono spesso in altri progetti immobiliari speculativi, rialimentando il circolo vizioso.
Giova a questo punto avvalersi dello sguardo da insider di John Zhang, operatore finanziario con trent’anni di esperienza ad altissimo livello e autore del recentissimo Inside China’s Shadow Banking, un libro che ci sentiamo di definire fondamentale per chiunque sia interessato al sottobosco del sistema finanziario cinese.
Secondo Zhang, le protagoniste dell’impazzimento del debito sono le cosiddette “società di garanzia”, che aggirano i vincoli a cui devono soggiacere le banche di Stato e che di fatto veicolano i soldi di queste verso debitori ad alto rischio, siano essi governi locali o singoli imprenditori.
Chi non riesce a fornire garanzie necessarie all’ottenimento di un credito bancario, può sempre rivolgersi a una di queste compagnie, che dietro pagamento si offrono come garante presso l’istituto; il quale, a quel punto, concede il prestito. Se il prestito va male, la banca può rivalersi sia presso il debitore sia con la società di garanzia.
Naturalmente ogni banca ha una lista di società di garanzia fidate, ma nel corso del tempo i rapporti si sono oliati, fino quasi a ribaltarsi. È la banca che ora si rivolge al “garante”, di fronte a una richiesta di credito a rischio: ehi, c’è tal dei tali che mi chiede un milione di renminbi per un centro di smaltimento rifiuti nella provincia dell’Hunan, io non posso concederglieli direttamente perché i suoi collaterali sono deboli, garantisci tu per lui?
A questo punto, la società di garanzia dovrebbe fare tutta una serie di valutazioni sul rapporto tra il proprio rischio e gli eventuali benefici, ma in regime di competizione tende ad accettare sempre più clienti a rischio per non essere estromessa dal gioco.
E così, di fronte a prestiti che finiscono sempre più in progetti improbabili, il debito esplode e le stesse banche finiscono strozzate, come ha dimostrato il recente credit crunch sul mercato interbancario.
Standard Chartered, Fitch e Credit Suisse hanno stimato che il debito pubblico locale in Cina sia equivalente a una cifra compresa tra il 15 e il 36 per cento dell’output complessivo del Paese, cioè fino a 3000 miliardi dollari, considerando i dati relativi al Pil cinese nel 2012, diffusi dalla Banca Mondiale.
La stessa Corte dei Conti ha stimato in un rapporto diffuso a giugno che il debito totale accumulato da un campione di 36 governi locali era di 3.850 miliardi di yuan (oltre 470 miliardi di euro) a fine 2012.
A spaventare è soprattutto il continuo allargarsi della voragine, segno che è il modello economico a essere ormai in panne.
In attesa di comprendere a cosa porterà l’operazione controllo, va quindi compreso che il giro di vite si inserisce nel più generale processo di trasformazione dall’alto che si cerca di imporre all’economia cinese nel suo complesso, per renderla più lenta, equilibrata, sostenibile e qualitativa: senza l’assillo della crescita quantitativa a ogni costo che stimola i funzionari locali a non andare troppo per il sottile e che alimenta il credito ombra.
Identificato il problema, le domande a questo punto sono due: riuscirà Pechino a cambiare l’inerzia dettata da Deng Xiaoping trent’anni fa, che ha prodotto interessi costituiti e pratiche ormai estremamente consolidate? E se anche ci riuscisse, lo farà in tempo per scongiurare una crisi che potenzialmente appare sempre più simile a quella dei mutui subprime in Occidente?
Da qui, in buona parte, passa il futuro del Dragone.