Aumento del 10 per cento della spesa pubblica e sgravi fiscali a chi investe in borsa senza speculare. Sono queste alcune delle misure che le autorità economiche cinesi stanno lanciando per gestire la difficile congiuntura economica. O meglio, per traghettare il Paese, senza troppi traumi, verso un nuovo modello. Nei giorni scorsi, la Cina ha rivisto al ribasso i dati già diffusi a gennaio sulla crescita economica del 2014: il 7,4 dichiarato allora è stato abbassato al 7,3.
Il decimale in meno – che corrisponde a circa 32 miliardi di Rmb – è relativo al settore dei servizi, che rappresenta comunque già la fetta maggiore del Pil domestico e sarà sempre più il traino di tutta l’economia, almeno nelle speranze della leadership.
La revisione al ribasso getta un’ulteriore ombra sull’attendibilità dei dati ufficiali cinesi ma, soprattutto, sullo stato di salute dell’economia tutta. Nel 2015, il Pil cinese dovrebbe crescere del 7 per cento, il dato più basso degli ultimi 25 anni, anche se il premier Li Keqiang fa giustamente notare che il “nuovo normale” cinese – la crescita più contenuta – farebbe leccare i baffi al resto del mondo. Sia che si tratti di economie evolute o di Brics.
Di fronte all’indubbio rallentamento passato e futuro, durante il G20 in Turchia della settimana scorsa, sono arrivate le dichiarazioni del ministro delle Finanze Lou Jiwei, secondo cui il governo di Pechino aumenterà la spesa pubblica del 10 per cento per rilanciare l’economia reale, mentre non intenderebbe ricorrere sistematicamente alla svalutazione dello Yuan per ottenere lo stesso scopo. Intanto, la Banca centrale ha fatto sapere che la valuta nazionale si è “stabilizzata” nei confronti del dollaro dopo la riforma del meccanismo di fissaggio del Renminbi/Yuan decisa l’11 agosto e interpretata da molti come svalutazione competitiva. Anche il premier Li Keqiang ha più volte ribadito che la Cina non intende ricorrere al deprezzamento sistematico della propria valuta.
In Turchia, il ministro Lou ha però anche ammesso che il Paese attraverserà un periodo di “doglie da parto” nei prossimi cinque anni, in quanto mira a completare principali riforme strutturali entro il 2020.
Insomma, siamo all’interno della narrativa della “transizione”: la Cina non è in crisi, bensì alle prese con un cambiamento di paradigma che dovrebbe trasformare la fabbrica del mondo in una economia evoluta. Chi pagherà i costi di questa transizione? È questa la domanda politica a cui la leadership cinese sta cercando di rispondere. Intanto, i dati di agosto ci dicono che le importazioni sono scese ulteriormente del 14,3 per cento e le esportazioni del 6,1.
Fin qui l’economia reale. Poi c’è quella finanziaria, di carta: le anomalie di un mercato borsistico cinese che dopo essere cresciuto del 150 per cento a cavallo tra 2014 e 2015 è crollato del 40 per cento da metà giugno.
Perché distinguiamo tra economia reale e finanza? Perché, a differenza dell’Occidente, le azioni rappresentano complessivamente solo il 9 per cento del patrimonio familiare dei cinesi e anche le maggiori imprese utilizzano poco i mercati finanziari per raggranellare risorse. Tuttavia, i tentativi molto empirici che Pechino ha messo in campo da giugno per frenare il calo – per alcuni “riaggiustamento” – delle borse, hanno suscitato la sensazione che la leadership cinese non sia in grado di controllare la propria economia. E questo ha una ricaduta anche sull’economia reale, perché mina la fiducia dei cinesi, che dovrebbero diventare nelle intenzioni di Pechino uno sconfinato popolo di felici consumatori.
Negli ultimi giorni sono arrivate altre due misure. La prima consiste nel varo di un meccanismo di blocco dell’indice CSI300 nei tre mercati cinesi: Shanghai, Shenzhen e il China Financial Futures Exchange. Il CSI300 è l’equivalente dell’indice S&P500 di Wall Street, mappa le 300 maggiori imprese cinesi quotate in borsa. La proposta della Borsa di Shanghai deve ancora passare al vaglio della China Securities Regulatory Commission, la Consob cinese, ma nelle intenzioni serve a “promuovere la stabilità di lungo termine e un sano sviluppo del mercato azionario”. Prevede in pratica che se l’indice scende o sale per più del 5 per cento rispetto alla chiusura del giorno precedente, viene sospeso per 30 minuti. Se le fluttuazioni superano il 7 per cento, l’indice è bloccato per tutto il resto del giorno.
La seconda misura stabilisce che sia tagliata la parte di tassa sul reddito relativa ai dividendi per quegli investitori che conservano i propri titoli per più di un anno. È chiaramente una mossa volta a incoraggiare gli investimenti a lungo termine rispetto alle speculazioni di breve periodo. Sarà invece richiesto il pagamento dell’imposta piena a coloro che detengono azioni per meno di un mese. Le modifiche sono già entrate in vigore. Dopo aver cercato inizialmente di fermare il crollo con acquisti pilotati, il governo cinese sta ora prendendo di mira i comportamenti speculativi.
Si tratta chiaramente di misure contenitive, in linea con il metodo sperimentale che la Cina pratica fin dai tempi di Mao, ma l’impressione è che Pechino intenda esercitarle finché, a transizione compiuta, siano finalmente le imprese più innovative a quotarsi in borsa: quelle che siano in grado di competere globalmente sul produzioni ad alto valore aggiunto e abbiano fondamentali robusti. Lì, forse, economia reale e virtuale torneranno a convergere.
[Scritto per Lettera43]