Scordatevi la pioggia di soldi pubblici del 2008 e non dimenticate, imprenditori malaccorti, che si può anche fallire. Così si è espresso in sintesi Li Keqiang, premier cinese, in chiusura dell’annuale assise del parlamento, ribadendo la volontà di cambiare il modello economico del Dragone. Molti dubbi però restano, uno su tutti: la Cina farà in tempo? Niente stimoli artificiali e basta con il pessimismo. È questo il sunto dell’intervento del premier cinese Li Keqiang in chiusura della sessione annuale del Congresso Nazionale del Popolo, il parlamento cinese.
Detta in breve: per raggiungere l’obiettivo di crescita stabilito per il 2014 – il 7,5 per cento – la Cina dovrà puntare sulla “flessibilità” (parola di Li) del proprio sistema economico e non su una pioggia di denaro pubblico che finirebbe inevitabilmente per incancrenire problemi già abbastanza incancreniti.
Fu questo il caso del 2008. Di fronte alla crisi economica globale e alla riduzione delle commesse dall’estero, Pechino reagì con un mega pacchetto di stimoli da 4mila miliardi di yuan (586 miliardi di dollari) che tenne il Dragone fuori dalla tempesta nell’immediato, ma che provocò problemi sul medio-lungo periodo. Il perché è presto detto: quei soldi finirono quasi tutti in infrastrutture – di cui la Cina aveva tutto sommato bisogno – e costruzioni – di cui si sentiva minore necessità – cioè il mattone, cioè la bolla immobiliare che da quel momento non ha smesso di crescere. Sul perché una sorta di keynesismo roosveltiamo alla cinese – anche il presidente Usa rimise in piedi il suo Paese dopo la crisi del ’29 con grandi botte di spesa pubblica – abbia preso questa brutta piega, esistono tante spiegazioni, ma una appare più importante: una volta data la spintarella all’immobiliare, tutti i cinesi hanno cominciato a buttarci i propri risparmi, gonfiando ulteriormente la bolla, perché un sistema finanziario bloccato impedisce loro di investire altrimenti.
Ora, Pechino vuole evitare di fare lo stesso errore e, già che ci siamo, mettere mano ai problemi che si trascinano da allora. È questo il senso sia delle riforme lanciate lo scorso novembre dal Terzo Plenum del Partito sia delle ultime esternazioni di Li Keqiang.
Il premier ha infatti annunciato che la bolla immobiliare verrà combattuta creando 4,7 milioni di nuove unità abitative a buon prezzo. Al tempo stesso, il governo centrale controllerà la compravendita di terreni a livello locale, nonché tutte quelle attività che possano dare adito a fenomeni di corruzione e ingigantire il fenomeno dello “shadow banking”, il sistema del credito parallelo e fuori controllo che favorisce gli investimenti speculativi e improduttivi. Saranno quindi monitorati centralmente gli investimenti dei governi locali – dice Li – nonché i loro “veicoli finanziari”, cioè quelle società di gestione patrimoniale create ad hoc per stornare denaro pubblico verso gli investimenti privati.
Tra le altre cose, Li ha lasciato intendere a urbi et orbi che d’ora in poi lo Stato non metterà più una pezza ai default dovuti a pratiche finanziarie eccessivamente disinvolte, come per altro è successo la settimana scorsa con la Chaori Solar Energy, la società shanghaiese produttrice di pannelli solari che non era riuscita a ripagare bond in scadenza per 89,8 milioni di yuan. Una piccola azienda, tutto sommato, il cui caso è capitato a fagiolo come monito per tutte le altre.
Secondo dati riportati dal britannico Telegraph, il debito locale cinese ammonterebbe ormai a circa 3mila miliardi di dollari, per un aumento del 67 per cento rispetto al 2010. Il totale del debito pubblico – se si aggiunge cioè anche quello del governo centrale – ammonterebbe ormai al 58 per cento del Pil e, soprattutto, ci sarebbero in circolazione ancora 15mila miliardi di crediti che rischiano di trasformarsi in “bad loans”, improduttivi.
Non dimentichiamo però che il problema del debito locale e degli investimenti balzani non dipende tanto dalla “avidità” dei funzionari, bensì da una faccenda molto più concreta: il fatto cioè che i governi di contee e municipalità debbano farsi carico della maggior parte delle spese correnti. Un “fiscal problem” direbbero gli anglosassoni, di struttura del bilancio diremmo noi. Le parole del premier lasciano presagire anche una ristrutturazione del sistema fiscale che alleggerisca gli oneri degli enti locali? Per ora no, ma una diversa distribuzione di introiti e spese tra Pechino e le amministrazioni decentralizzate è problema non procrastinabile.
Se è chiaro come si intende correggere le storture attuali, nelle parole di Li, a parte quel generico richiamo alla “flessibilità” del sistema, non si vedono ancora gli strumenti per un vero rilancio dell’economia, che deve spostarsi dal modello “fabbrica del mondo” (investimenti, manifatture ed export) al modello “economia avanzata” (innovazione, servizi, consumi interni). Insomma, come stimolare i cinesi a spendere? Come farli diventare creativi? La risposta universale a queste domande è “più welfare” e migliore educazione, ma i risultati di tali politiche – Li ha per esempio annunciato una non meglio precisata “rete di assistenza sociale” che dovrebbe tutelare 800 milioni di cinesi – si vedono comunque sul lungo periodo. La scommessa più grande per la Cina attuale è quindi proprio quella di contenere il calo della crescita dovuto alla dismissione del vecchio modello “fabbrica del mondo” per il tempo necessario a compiere la grande trasformazione.
C’è poi una storia a margine, ma non troppo. I giornalisti stranieri presenti alla conferenza stampa di Li affermano di essere stati preventivamente allertati sul fatto che non sarebbe stata ammessa alcuna domanda su Zhou Yongkang, l’ex zar della sicurezza e protettore di Bo Xilai che sarebbe attualmente sotto indagine per corruzione. “È ancora troppo presto”, hanno detto i funzionari addetti ai rappresentanti della stampa.
Certo, Li non ha voce in capitolo sulla vicenda Zhou, perché è affare della Commissione di Disciplina e Ispezione affidata a Wang Qishan e controllata dallo stesso presidente Xi Jinping. Ma nell’analoga conferenza stampa in chiusura della sessione di due anni fa, l’ex premier Wen Jiabao aveva attaccato duramente il “modello Chongqing” di Bo Xilai, annunciando di fatto la rovinosa caduta dell’ex “piccolo Mao”, che sarebbe avvenuta di lì a poco. Insomma, la stampa straniera si aspettava una riedizione sella sit-com. Niente da fare: Li ha parlato di “tolleranza zero verso la corruzione”, punto.
La vicenda Zhou si sta consumando al crocevia tra conflitti politici (e di consorteria) interni all’establishment cinese e le ben più concrete ragioni economiche sopra esposte. L’ex “mammasantissima” dei servizi di sicurezza è infatti il simbolo degli interessi costituiti all’interno delle grandi imprese di Stato, nella fattispecie quelle petrolifere, che bloccano l’innovazione cinese e ostacolano le riforme di mercato. Nell’ambito di un’indagine ad ampio spettro cominciata l’estate scorsa, sono già stati arrestati suo figlio, Zhou Bin, e il suo ex braccio destro ed ex-presidente della più grande compagnia petrolifera cinese, la China National Petroleum Corporation, Jiang Jiemin. A differenza di Bo, Zhou non svolge però attualmente nessun ruolo attivo, essendo stato pensionato nel 2012. Né gode della stessa popolarità. La sua liquidazione politica può quindi procedere dietro le quinte.