Può la Cina comprarsi una città statunitense, pezzo per pezzo? Forse sì, se la città si chiama Detroit ed ha ufficialmente fatto bancarotta il 18 luglio 2013. Nel giro di un anno, parecchia acqua è passata sotto i ponti di Motown e, se non di acqua, di liquidità si parla comunque. La strategia di ingresso delle imprese cinesi nell’ex capitale mondiale dell’auto sembra seguire una strategia ben definita che rivela uno dei volti più caratteristici del Dragone: prima il mattone; poi, casomai, il resto.
Complice un servizio di CCTV, in cui la televisione di Stato raccontava che le proprietà della città del Michigan costano meno di un paio di scarpe, le orecchie dei palazzinari cinesi si sono immediatamente drizzate.
Ha cominciato lo scorso autunno il gruppo DDI di Shanghai – Dongdu International Group – acquistando a un’asta tre edifici storici nel centro della città. Prezzo complessivo, 16,4 milioni di dollari che, come ha osservato il britannico Guardian, “è un costo di poco superiore a quello di un appartamento di alta fascia a Shanghai”.
Sono il palazzo David Stott, un grattacielo art-deco di 38 piani costruito nel 1929 (9,4 milioni di dollari); la sede del giornale Detroit Free Press, un edificio a forma di T costruito dal grande architetto Albert Kahn nel 1925, ornato con bassorilievi di biplani, locomotive, galeoni e tritoni (4,2 milioni); il Clark Lofts, con i due ascensori “Otis” meccanici degli anni Venti, azionati ancora dall’operatore umano (2,8 milioni). Tutti simboli della Detroit di inizio Novecento, quand’era all’apice della sua potenza industriale.
Qual è la filosofia dei palazzinari cinesi? È racchiusa nelle parole di Ken Creighton, rappresentante locale dell’immobiliare cinese, che qualche mese fa ha spiegato cosa si intende fare dell’ex Detroit Free Press (palazzo) al Detroit Free Press (giornale), che da parte sua si è spostato dal 1998 a tre isolati di distanza, nel Detroit News (palazzo). La società intende demolire gli interni e riempirli di 170 appartamenti e uffici di lusso, con un investimento da 50 milioni di dollari. Al piano terra, attività commerciali. DDI sta nel frattempo facendo domanda per crediti d’imposta statali e federali che potrebbero farle risparmiare fino a 28 milioni di dollari.
L’azienda intende mantenere gli ornamenti e anche parte del nome “Free Press” sulla facciata dell’edificio: “Potrebbe essere qualcosa tipo ‘I loft del palazzo Detroit Free Press’”, ha spiegato Creighton.
Progetti simili per gli altri edifici acquistati.
Per gli immobiliaristi cinesi, che in patria devono affrontare le varie misure messe in atto del governo per raffreddare la bolla immobiliare e la recente frenata del settore, investire all’estero è un’ottima soluzione. Secondo i dati della National Association of Realtors, un’associazione professionale Usa, i cinesi hanno rappresentato circa il 16 per cento degli acquirenti di casa stranieri negli Stati Uniti dall’inizio dell’anno a marzo, percentuale in crescita rispetto al 12 per cento del 2013 e 2012. Mentre la maggior parte degli acquirenti punta su investimenti affidabili in città come San Francisco, Los Angeles e New York, altri sono alla ricerca di nuove frontiere. Ed ecco la disastrata Detroit.
Caroline Chen, una agente immobiliare di origini taiwanesi, è diventata la principale mediatrice per gli investitori cinesi che comprano a Detroit e tre anni fa ha aperto anche un’agenzia a Shanghai. La donna racconta al Guardian di ricevere tantissime telefonate da possibili acquirenti d’oltre Muraglia e che le transazioni si concludono in una percentuale compresa tra il cinque e il dieci per cento, per circa 300 immobili venduti finora. Ed ecco un’altra tipica caratteristica – quella speculativa – degli acquirenti cinesi: “La maggior parte dei compratori su piccola scala, pensa di poter lasciare l’immobile lì, così com’è, dato che se tutti comprano il suo valore prima o poi salirà”. È l’applicazione, pari pari, del modello cinese: quello che ha generato la bolla immobiliare. Ma a Detroit, città fondamentalmente depressa, non funziona in questo modo: “Se ognuno fa così, allora [l’immobile] resta lì e basta”, spiega Chen.
Il business immobiliare che comincia con il recupero dell’edificio storico potrebbe poi, come si è detto, fare da traino ad altro. Solomon Wong, business manager di DDI per le operazioni internazionali ha dichiarato al Detroit Free Press che nei primi progetti l’impresa è tenuta a rispettare le norme di tutela e recupero (almeno per quanto riguarda le facciate dei palazzi), “ma in futuro potremmo anche metterci a costruire ex novo”. La società ha per altro ambizioni che vanno al di là immobiliare e lascia intendere che potrebbe fare da tramite per l’approdo dell’industria automobilistica cinese nell’ex capitale dell’auto e, in senso contrario, importare in Cina tecnologie e innovazione dal Michigan, soprattutto nel sistema sanitario.
Milan Stevanovich, della Detroit Chinese Business Association, dichiara allo stesso giornale che “il denaro cinese è intelligente; quando vedranno che i soldi si dirigono qui, altri cinesi verranno e faranno da traino per investitori di altri Paesi. Il denaro cinese è il migliore che possa arrivare”, proprio perché crea un flusso continuo.
Giusto lunedì, l’ex segretario al Tesoro di Bush, Henry Paulson, è approdato a Motown per spiegare i benefici degli investimenti cinesi. Paulson, già salvatore delle banche Usa con i soldi dei contribuenti e amministratore delegato di Goldman Sachs, ha una fondazione che si occupa proprio di promuovere gli affari tra la Cina il suo Paese ed era con il governatore del Michigan, Rick Sneider. Ha citato il caso della Fuyao Automotive, filiale locale di una compagnia cinese, che ha investito 15,3 milioni dollari nel suo stabilimento del Michigan, creando 102 posti di lavoro. La consociata Usa della Dixing Taihe di Pechino, ha annunciato l’apertura di un centro di ricerca e sviluppo automobilistico su più di 320 ettari nel sobborgo di Plymouth.
Dal 2000, le imprese cinesi hanno investito 1,1 miliardi dollari in Michigan, in gran parte nel settore automobilistico e aerospaziale.
Ma quando ci sono di mezzo investimenti cinesi e si parla di centri ricerca, nuovi stabilimenti e quartieri industriali, la mente corre immediatamente al mattone. Chissà perché.