La Cina non fa sconti agli Stati Uniti che sono stati sull’orlo del default e, cinque anni dopo la crisi dei mutui subprime che si è estesa a tutto il mondo in forma di recessione, rilancia una strategia di esodo dalla dittatura del dollaro e dal vincolo con l’economia Usa. Ma Washington può ancora fare comodo, mentre sullo sfondo compare anche la "questione Xinjiang". Parola d’ordine “deamericanizzare”. Di fronte agli Usa in panne sulla questione del deficit federale, la Cina ha rispolverato qualche settimana fa i toni del partner offeso, del socio in affari gabbato, della formica fregata dalla cicala. Con un commento sull’Agenzia Nuova Cina, diffuso anche da altri media nazionali e successivamente ribadito da continui editoriali, l’establishment cinese sta rendendo chiaro da tempo a urbi et orbi la propria visione del presente e del futuro.
Oggi, c’è un’America claudicante sullo scoglio del deficit federale mentre si permette di fare la voce grossa in giro per il mondo. Domani, ci sarà un mondo multilaterale in cui tutte le nazioni saranno eguali.
«Nel quadro della cosiddetta la Pax-Americana – si legge sull’editoriale originario – non ci riesce proprio di vedere un mondo dove gli Stati Uniti contribuiscano a disinnescare violenze e conflitti, a ridurre il numero dei poveri e degli sfollati, a realizzare una pace vera e duratura. Inoltre, invece di onorare i propri doveri da potenza guida responsabile, Washington ha abusato in maniera arrivista del suo status di superpotenza e introdotto ancora più caos nel mondo, trasferendo i propri problemi finanziari all’estero, istigando tensioni regionali nel quadro di dispute territoriali e combattendo guerre ingiustificate sotto la copertura di menzogne.»
Dritti al punto, anche sulla questione impellente del deficit Usa. Cosa succederebbe – ci si chiede – in caso di default del governo federale? Che gli asset in dollari posseduti da molti altri Paesi diventerebbero carta straccia (la Cina è il più grande detentore estero di buoni del Tesoro Usa, per un valore complessivo di 1.280 miliardi dollari, secondo fonti americane). Insomma, conclude l’articolo, bisogna muoversi verso un mondo “deamericanizzato” ed emanciparsi dalla dittatura del dollaro.
È proprio il biglietto verde il principale tema del contendere. Ormai da anni la Cina cerca di bypassare il dollaro come valuta di riserva e di scambio, preferendo commerciare con i partner nelle rispettive monete (lo fa per esempio con la Russia dal 2010 e con il Giappone dal 2012). Pechino spinge per sostituire il sistema creatosi dopo il “Nixon shock” del 1971, quando il dollaro divenne “flat money” universale: moneta che si autogiustifica senza bisogno di agganciarsi al valore dell’oro. Ma più che a seppellire definitivamente Bretton-Woods, la Cina punta ad avere più voce in capitolo nel Fmi dove – è un paragone che si legge un po’ ovunque anche nei media anglosassoni in questi giorni – “ha un peso di pochissimo superiore a quello dell’Italia”. Pensate un po’.
Per la Cina, il Fmi resta una sede importante perché è proprio lì che nasce lo Special Drawing Right (Sdr, "Diritti Speciali di Prelievo", in italiano), quella “supervaluta universale” costituita da un paniere di monete nazionali che sostituirebbe il dollaro come standard globale. Zhou Xiaochuan, il governatore della banca centrale cinese, l’ha proposto fin dal 2009; la Russia e anche l’Onu si sono allineati.
Ma sull’emancipazione dell’economia globale dal dollaro e, quindi, dai chiari di luna della politica interna Usa, bisogna fare chiarezza: il commento dell’Agenzia Nuova Cina non è solo la posizione ufficiale di Pechino. È un sentire diffuso.
Un amico cinese racconta questa storiella (vera, dice lui): «Mio nonno era quello che nella Cina tradizionale si definiva yuanwai, cioè un funzionario locale, una sorta di giudice di pace. Ma a poco a poco, il termine finì per designare qualcuno che possedeva terreni e case, in sostanza, un ricco. Mio nonno è morto quando mio padre aveva 10 anni e suo fratello 12. Improvvisamente, il loro mondo si è capovolto. E venuto alla luce che, zitto zitto, mio nonno aveva tranquillamente vissuto oltre i propri mezzi e che si era pesantemente indebitato dando in pegno le proprietà che aveva ereditato. Le persone a cui doveva i soldi erano parenti vicini e lontani, quelli che nella testa di mio padre erano sempre apparsi come le famiglie più povere. Erano agricoltori che lavoravano duramente la terra. Alcuni lavoravano perfino sui terreni di mio nonno. Mio nonno, si era comportato come lo Zio Sam.» Ed è facile invece intuire a chi corrispondano i parenti poveri, che si sono spezzati la schiena e hanno fatto credito all’improvvido latifondista.
Deamericanizzare soprattutto l’economia, dunque.
Diverso è il discorso quando si passa alla geopolitica. Lì, la funzione da “gendarme globale” degli Usa può ancora tornare utile.
È questo il caso dell’approvvigionamento energetico e, nella fattispecie, del petrolio che arriva oltre Muraglia dal Golfo Persico. Ora, bisogna sapere che secondo il Wall Street Journal la Cina starebbe ormai superando gli Usa come principale importatore di greggio dai Paesi Opec, dopo essere divenuta già il cliente numero uno per i Paesi del Golfo Persico. D’altra parte – dice il giornale Usa – per Washington il Medio Oriente non sarebbe più così importante in termini energetici, grazie allo sviluppo delle industrie domestiche dell’olio di scisto e del gas. E secondo uno studio Wood Mackenzie, la classifica delle importazioni dai Paesi Opec, aggiornata nel primo semestre 2013, vede la Cina prima con 3,7 milioni di barili al giorno, gli Usa secondi con 3,5 e l’India terza con 3,4. La tesi di un giornale “corporate” come il WSJ è che la quinta flotta Usa che pattuglia lo stretto di Hormuz e le acque dell’Oceano Indiano faccia dunque comodo soprattutto alla Cina come garanzia dei propri approvvigionamenti. Anche navi militari cinesi incrociano da quelle parti, si dice, ma la loro presenza è irrilevante rispetto a quella americana, né Pechino sembra intenzionata ad aumentarla.
Washington fa quindi pressioni sulla leadership cinese affinché in cambio del servizio di security “si allinei” su altre vicende, come quella Siriana o sul “dossier Iran”, oppure affinché collabori maggiormente alla sicurezza regionale. Ma il bluff Usa non funziona, perché i cinesi sanno benissimo che la presenza statunitense in quell’area continuerà a esserci per la difesa di Israele, per garantire gli approvvigionamenti per Giappone e Corea del Sud e, non ultimo, per tenere d’occhio quella parte di mondo proprio in funzione anticinese. Insomma: hai voluto la bicicletta da superpotenza? Adesso pedali.
Non solo: la diplomazia cinese ricorda di continuo dirimpettai statunitensi che quella zona di mondo non va destabilizzata con fughe in avanti del tipo di quella che l’amministrazione Obama voleva attuare in Siria. E qui, in un doppio salto mortale, si ritorna al concetto di “superpotenza irresponsabile”.
In quell’area, ci sono per la Cina molti interessi economici che però possono tranquillamente adagiarsi sotto l’ombrello politico (e militare) altrui. Nell’Iraq martoriato dall’aggressione Usa e dalle sue conseguenze, nella regione sud-orientale di Mayan, China National Petroleum Corporation sta per esempio costruendo una “oasi fortificata” – con tanto di laghetto artificiale – per i propri lavoratori del giacimento di Halfaya, mentre a Baghdad mantiene un’ambasciata con sole dieci persone di staff, ben al riparo di quella Usa, dove si agita un corpo diplomatico da migliaia di funzionari. Una strategia del giunco, quella cinese: inclinarsi senza spezzarsi, lasciando avanzare l’avversario e sfruttando a proprio vantaggio la sua stessa spinta propulsiva.
Le risorse risparmiate in Medio Oriente, vengono quindi utilizzate altrove. Mentre lascia che gli Usa facciano il “lavoro sporco” sulle rotte marittime del petrolio, la Cina si dedica infatti ad aprire un proprio canale di approvvigionamento via terra. Si tratta, come da tradizione, dell’antica via della Seta.
Qui è troppo lungo ripercorrere a ritroso la plurimillenaria storia cinese. Gioverà solo ricordare che nel 1400 il Celeste Impero aveva una presenza sui mari ben più imponente di quella europea.
Sono quelli gli anni delle spedizioni dell’ammiraglio Zheng He in tutta l’Asia meridionale il Sudest Asiatico, l’Africa Orientale e il Medio Oriente. Con una flotta da duecento navi, alcune delle quali si dice fossero lunghe cento metri. Lui stesso, intrepido navigatore, musulmano ed eunuco, rappresentava l’eccezionale livello raggiunto dalla civiltà Ming: ricca, complessa, tecnologicamente avanzata, con un Pil nettamente superiore all’Europa dell’epoca.
Eppure, anche allora, la Cina si chiuse all’espansione marittima – l’unica mercanzia africana gradita a corte fu una giraffa che l’ammiraglio regalò all’imperatore – e dimenticò l’ammiraglio Zheng. Il Celeste Impero sentiva di non avere bisogno di altro da sé e dedicò i successivi secoli a consolidare i propri confini in un sistema di “Stati tributari” che riconoscevano la superiorità e la centralità cinese in cambio di benefici redistribuiti. La via della Seta – in realtà una rete di percorsi già collaudati e percorsi da secoli, che si separavano e riconvergevano in più luoghi – divenne la naturale porta verso Occidente.
Mal glie ne incolse. Lo sviluppo marittimo, il mercantilismo terracqueo che favorì la successiva potenza industriale, consentì all’Occidente di ripresentarsi in Cina nell’Ottocento con le cannoniere, imponendo al Celeste Impero concessioni territoriali che godevano di extraterritorialità (erano sottratte alle leggi e al controllo di Pechino) e un “secolo dell’umiliazione” attraverso due scioccanti guerre dell’Oppio.
Dopo centocinquant’anni di lento e spesso drammatico cammino per ritornare “al centro del mondo”, la Cina è oggi un player globale che gioca su tutti i tavoli. Ma la sua vocazione storica la riporta lungo la Via della Seta (che in cinese si dice si chou zhi lu).
A metà settembre, Xi Jinping ha completato un tour di dieci giorni in Asia centrale che l’ha condotto in Turkmenistan, Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan, al G-20 di San Pietroburgo e al summit della Shanghai Cooperation Organization di Bishkek. Ad ogni tappa, Xi ha preso impegni di cospicuo sostegno finanziario ai Paesi vicini, chiedendo in cambio una sempre maggiore cooperazione sul piano dell’agenda diplomatica, della sicurezza regionale e delle politiche energetiche. In Turkmenistan, Xi ha inaugurato un giacimento di gas naturale; in Kazakistan ha promesso 30 miliardi di dollari in progetti energetici e infrastrutturali. In Uzbekistan e Kirghizistan, ha fatto promesse simili.
I flussi transfrontalieri si intensificano: ci sono le strade (il corridoio Kashgar-Gwadar, dalla Cina al Pakistan ma anche un reticolo di strade in costruzione più a nord, nelle repubbliche centro-asiatiche); c’è la ferrovia (il 17 luglio è stata inaugurata la linea ferroviaria diretta da Zhengzhou, capitale della provincia dell’Henan, ad Amburgo); ci sono soprattutto oleodotti e gasdotti, come quello della Asia Centrale che collega il giacimento turkmeno di Galkynysh allo Xinjiang.
Sono solo singoli esempi, ma se si realizzasse per esempio il gasdotto Iran-Pakistan, che arriverebbe al porto di Gwadar con ulteriore prolungamento fino allo Xinjiang, la Cina potrebbe anche utilizzare lo scalo sul Mare Arabico come hub per il petrolio che arriva proprio dallo stretto di Hormuz, risparmiando così tempo rispetto alla rotta via mare e guadagnandoci anche in sicurezza (non ci sarebbe più da pattugliare l’Oceano Indiano).
Ecco quindi l’importanza di quella che ad Astana, capitale kazaka, Xi Jinping ha definito “cintura economica della Via della Seta” che, lo sappiamo bene, anche in antichità era più un reticolo di strade che una sola.
Ha fatto esplicito riferimento allo Xinjiang, il presidente, e lì tutto converge. È la regione più occidentale della Cina, porta di Pechino sull’Asia Centrale, ma anche luogo lontano dalla culla della civiltà han: melting pot da sempre, e da sempre anche luogo di conflitti.
Una terra instabile che deve diventare l’hub energetico, infrastrutturale, tecnologico e commerciale di Pechino. Ma che vive una irrisolta questione etnico-religiosa, che è anche e soprattutto sociale. Questa, però, è un’altra storia.