La speculazione immobiliare pesa sul futuro della Cina. Il governo prova ancora una volta a sgonfiare la bolla e questa volta lo fa con un pacchetto di misure che, colpendo le seconde case, finiscono per deprimere le borse. Un tentativo che ha senso se viene letto sul lungo periodo, sempre che riesca. Venerdì 1 marzo: il Consiglio di Stato cinese (cioè il governo) annuncia una serie di misure per raffreddare il mercato immobiliare. Lunedì 4 marzo: le imprese del settore perdono in media il 9,5 per cento sulla piazza di Shanghai e tirano giù con sé tutta la borsa (- 3,7 per cento) e mezza Asia. Così il mondo scopre sulla propria pelle la bolla immobiliare del Dragone e quanto sia interna, strutturale, al boom economico degli ultimi dieci anni.
Gli osservatori economici cominciano a chiedersi: ma ne varrà la pena? La Cina può rischiare di tarpare le ali alla propria crescita per lo sfizio di frenare il mattone?
Sì, è la risposta. A patto che si veda l’altra faccia della medaglia. Yi fen wei er, si dice da queste parti: l’uno si divide in due.
Le due facce dalla medaglia sono sintetizzabili in “breve e lungo periodo”.
L’intento, nonostante le reazioni immediate della borsa, non è tuttavia quello di deprimere i mercati e le misure potrebbero essere definite perfino morbide.
Va detto che oggi esiste un’imposta sulla proprietà – una Imu cinese – che però è applicata a titolo sperimentale solo a Shanghai e Chongqing. All’estensione di questa tassa alle altre città, Pechino sembra infatti oggi preferire un’imposta sul capital gain: che cioè aumenta solo all’aumentare dei prezzi della casa. Non abbassa repentinamente i valori immobiliari, li contiene; non colpisce il reddito, bensì le rendite speculative.
Al contempo, si è lasciato intendere che le nuove norme dovrebbero essere estese da subito su tutto il territorio nazionale, il che rivela un disegno organico e, appunto, di lungo periodo.
Bisogna del resto prendere il toro per le corna. Nonostante precedenti tentativi del governo di agire sui prestiti bancari, i prezzi immobiliari nelle cento maggiori città cinesi sono infatti aumentati del 2,5 per cento a febbraio (anno su anno), al culmine di una crescita inarrestabile durata ben nove mesi. E l’Ufficio nazionale di statistica riporta che i prezzi hanno fatto un balzo del 6,8 per cento nel 2011 e del 7,7 nel 2012. Troppo.
Naturalmente ci sono le obiezioni più o meno interessate di chi sostiene che di speculazione non si tratti e che il mercato non vada frenato perché la Cina ha bisogno di case. Numeri alla mano – dicono costoro – ci sono 150 milioni di appartamenti nuovi e 200 milioni di migranti che vivono nelle baracche, quindi la domanda supera l’offerta.
Ma la bolla non è prodotta dagli appartamenti che vanno ai migranti, bensì da seconde, terze, quarte case che spesso restano vuote perché utilizzate soprattutto come investimento da funzionari rapaci, nuovo ceto medio arricchito e così via. Per i migranti esiste un mondo parallelo, quello del grande progetto di edilizia popolare in cui si è imbarcato il governo: 36 milioni di nuove case da costruire nel quinquennio 2011-2015. È un’altra storia.
Nel 2008, quando si trattò di scampare alla recessione che arrivava da Occidente, Pechino investì massicciamente in costruzioni e infrastrutture. Un pacchetto di stimoli da 4mila miliardi di yuan (586 miliardi di dollari), frutto in gran parte della bilancia commerciale positiva con l’Occidente, prese così la strada più facile: il mattone.
Dopo tutto, il Paese aveva bisogno di collegamenti degni del suo nuovo status economico e il ceto medio in espansione cercava una qualità della vita ben rappresentato dalla casa. Tra gli esiti positivi di quelle scelte, ci sono oggi 13mila chilometri di ferrovie ad alta velocità che gradualmente rendono le distanze cinesi un po’ meno infinite.
Oggi la Cina non è già più quella di cinque anni fa. La questione vera è che il Dragone deve trasformare radicalmente la propria economia, ribilanciarla. E per farlo, deve diventare più eguale: distribuire meglio la ricchezza.
I bad loans, il credito facile generato dalla massa di denaro messo in circolazione nel 2008 e inghiottito in gran parte dall’immobiliare, ha creato infatti una bolla che a sua volta comporta tre conseguenze parimenti nefaste.
Primo: aumenta la diseguaglianza sociale. Per ogni palazzinaro che si arricchisce con la speculazione edilizia e per ogni funzionario locale che si prende la mazzetta per concedergli i permessi, c’è un contadino espropriato dei propri terreni senza giusto indennizzo.
Secondo: la bolla rischia di scoppiare da un momento all’altro, trascinando con sé fortune individuali, fette di Pil e forse lo stesso potere politico cinese, che scommette sulla crescita e sul “moderato benessere” per restare attaccato alla poltrona. Abbiamo tutti ben presente cosa accadde negli Usa, e poi in tutto l’Occidente, ai tempi della crisi dei mutui subprime.
Terzo: la speculazione immobiliare sottrae risorse agli investimenti più produttivi, quelli che dovrebbero trasformare la Cina da “fabbrica del mondo” a economia evoluta in grado di competere sui prodotti ad alto valore aggiunto e di spostare il baricentro della propria crescita sul mercato interno.
Per compiere il ribilanciamento, la Cina deve togliere risorse alle imprese per darle ai cittadini, in modo che possano consumare. Ecco quindi che i grandi profitti – in questo caso quelle delle immobiliari – devono essere tassati per investire in progetti sostenibili sul lungo periodo: istruzione, sistema sanitario, un’agricoltura più tecnologica e produttiva (per sfamare la crescente popolazione urbana), ricerca e sviluppo.
Questo disegno sul lungo periodo, provoca turbolenze sul breve: bisogna spendere, bisogna investire, spostare risorse da un settore all’altro. E i risultati non si vedono subito, mentre il mercato non aspetta. Così, i titoli crollano.
Poco male, il problema se mai è un altro: riusciranno i nostri eroi – il presidente/segretario Xi Jinping e il premier/vicesegretario Li Keqiang – a compiere la grande trasformazione?
Qui il problema diventa politico. La Cina non è una democrazia, Xi e Li non devono rispondere a un elettorato in base a un programma, bensì all’elite del Partito che li ha messi a capo del Paese.
È un Partito composito, in cui si scontrano le più diverse lobby e ideologie agli antipodi ma che è unificato, ai suoi vertici, da una comune appartenenza di ceto: chi comanda, in Cina, ha tanti soldi e tanti interessi nei settori trainanti dell’economia.
Può, il ceto dirigente, tassare se stesso? Difficile. Almeno fino a quando non capirà che il non farlo potrebbe procurargli guai maggiori in futuro. Si comincia con una tassa sulle transazioni immobiliari e si sta a vedere. Dopo tutto, la Cina è maestra nelle trasformazioni impercettibili, sottili, che poi si rivelano enormi a decenni di distanza.
[Scritto per Linkiesta.it]