Dalla semi-illegalità all’emersione nel segno del business. Non sono ancora rose e fiori per il mondo LGBT cinese, ma interessi del tutto materiali potrebbero contribuire a sdoganare sempre più l’omosessualità. A trainare il fenomeno (o magari semplicemente a cavalcarlo), c’è come al solito Alibaba. Sono centinaia, affollano il club al seminterrato di un palazzina piuttosto anonima, nella via centrale di Pechino. Il venerdì è destinato a loro, la comunità lesbica della città. Quasi tutte in stile butch – capello corto, t-shirt e Doc Marten’s – i fianchi non-mediterranei e la pelle liscia tipicamente cinesi le fa sembrare più dei ragazzini tredicenni che dei duri metropolitani. Qualcuna si accompagna a una femme, sciantosa come Jessica Rabbit. Si festeggia un compleanno e un cubista maschio fa la lap-dance seminudo, mentre le ragazze urlano e gli infilano banconote nelle mutande. Alla fine, lui inchioda la festeggiata al palo e appiccica le labbra alle sue, mentre la folla esplode in un’esultanza da stadio. Poi è la volta della fidanzata di lei, una femme spacco-munita che bacia la compagna con passione, mentre tutte applaudono. L’occidentale maschio, invitato lì da un’amica, è due volte strano. Quando qualche ragazza incrocia il suo sguardo, chiede vagamente perplessa e divertita: “Ciao, ma ti diverti?”
Era il 2012 e la scena poteva descrivere bene sia la potenzialità esplosiva del mondo LGBT cinese sia il suo muoversi all’oscuro, in uno spazio-tempo limitato, con pudore e timore. Nel Celeste Impero, l’omosessualità ha smesso di essere un crimine solo nel 1997 e fino al 2001 era ancora considerata una malattia mentale. Ma da queste parti si va veloci, soprattutto quando ci sono di mezzo i soldi, e sempre più il business fa l’occhiolino a un underground che piano piano emerge e il cui potenziale commerciale nel mondo è stimato sui 3mila miliardi di dollari. LGTB Capital, una società di Hong Kong che studia le opportunità di investimento offerte dal mondo non-eterosessuale, quantifica in 300 miliardi di dollari il potenziale di mercato nella Cina continentale. Secondo l’agenzia, i consumatori LGBT hanno inoltre una fedeltà superiore alla media per i marchi che giudicano amichevoli.
Altrove è già stato coniato il neologismo “pink dollar” (dollaro rosa): a Pechino e dintorni parleremo di “pink yuan”.
Taobao, cioè Alibaba, non è solo il numero uno dell’e-commerce mondiale. È anche il motore immobile che sposta impercettibilmente il senso comune dei cinesi attraverso le abitudini al consumo. Ha fatto scalpore a febbraio, quando ha lanciato la promozione “We do it” in partnership con alcune Ong come PFLAG China (Genitori, Famiglie, Amici di Lesbiche e Gay) e il Beijing LGBT Center. Consentiva a dieci coppie omosessuali di andare in luna di miele a Los Angeles, con tanto di matrimonio incluso nell’offerta.
Certo, non si sa in questo caso se l’intenzione prioritaria sia quella di battersi per i diritti sfruttando il business o – più probabilmente – viceversa. Ma forse poco conta: così Taobao vende anche una linea di biancheria da letto a tema LGBT in collaborazione con la Shanghai Bliss Home Textile e offre pacchetti vacanza per cinque Paesi dove il matrimonio omosessuale è legale.
Un ex poliziotto, Ma Baoli, ha invece creato nel 2012 l’applicazione mobile per appuntamenti Blued, destinata al mondo gay: a oggi, siamo a 15 milioni di utenti e 60 dipendenti per l’impresa del signor Ma, che ha lanciato il mese scorso la versione in lingua inglese della app; la quale dovrebbe dotarsi a breve di una funzione per l’e-commerce. La società di venture capital statunitense DCM Ventures ha investito 30 milioni di dollari in Blued a novembre e anche la pechinese Crystal Stream Capital ci ha messo dei soldi, senza specificare quanti.
Ma l’indotto LGBT può fiorire in diverse direzioni. Basta per esempio un numero di cellulare e alcuni dati personali per aprire un account su “Queers”, una app che esiste da gennaio e che in pochi minuti ti mette in contatto con oltre 10mila gay e lesbiche per organizzare un matrimonio di convenienza. L’escamotage coniugale, chiamato xinghun in cinese, serve a placare eventuali genitori conservatori e a nascondere il proprio orientamento sessuale. Serve a mantenere un aspetto esteriore di eterosessualità. Il patto non scritto consiste nel restare sposati continuando a vivere secondo i propri orientamenti. Il retaggio della tradizione resta pesante.
Tuttavia, l’impressione è che qualcosa si muova anche a livello di coscienza collettiva. Alla vigilia del Lianghui, la doppia sessione parlamentare che si è appena conclusa a Pechino, il padre di un gay di Ganzhou ha inviato una lettera a mille parlamentari chiedendo loro di discutere della legalizzazione dei matrimoni omosessuali. Ganzhou è nella provincia del Jiangxi, una delle più povere e arretrate del Paese, ma il 61enne Lin Xianzhi rivendica parità di diritti per le coppie gay. Il figlio, Xiaotao, che aveva fatto outing nel 2011, ha raccontato al Global Times che suo padre è gradualmente passato dal rifiuto all’accettazione, per poi decidere di aiutare altri genitori a seguire un percorso simile. È quindi entrato come volontario in PFLAG e ha preso l’iniziativa. Vuole per le coppie omosessuali cure mediche, diritti di eredità e di proprietà immobiliare: in Cina si tende ad andare sul concreto, con il mattone in cima alle preferenze.
[Scritto per Lettera43]