Dragonomics – Soldi in fumo

In by Simone

I costi dell’inquinamento: alcune indicazioni arrivano da uno studio congiunto Università di Pechino-Greenpeace. Il degrado ambientale, se fosse calcolato seriamente, ridimensionerebbe drasticamente il Pil cinese.

Nel 2012, in quattro delle maggiori città della Cina, l’inquinamento è costato 6,8 miliardi di renminbi (più di ottocento milioni di euro) nonché 8.572 morti premature.
Pechino soffoca nello smog e i costi, oltre a essere sociali, sono pure economici. Qualcuno ha provato a calcolarli.

Uno studio congiunto Greenpeace-Università di Pechino (Beida) aveva infatti estratto il pallottoliere ben prima che la capitale cinese fosse invasa dalle polveri sottili, le nefaste PM 2,5 che in questi giorni infestano l’aria e i giornali di tutto il mondo. A fine 2011, PM2.5: Measuring The Human Health And Economic Impacts On China’s Largest Cities rivelava i dati relativi a Pechino (nord), Shanghai (est), Guangzhou (sud) e Xi’an (ovest) e faceva proiezioni per il 2012.

Si tenga presente che Pechino, al centro dell’attenzione in questi giorni, non rientra secondo la stessa televisione di Stato, Cctv, nelle dieci città cinesi con la peggiore qualità dell’aria. La più inquinata in assoluto sarebbe Shijiazhuang, nell’Hebei, la regione che circonda la capitale cinese e che ha il record negativo delle prime quattro città nella classifica.

Premesso questo, lo studio di un anno fa stimava le perdite economiche che ogni città avrebbe avuto nel 2012.
Pechino avrebbe sacrificato alle polveri sottili oltre 283 milioni di renminbi (circa 35 milioni di euro), nella migliore delle ipotesi, e circa 2 miliardi e sessanta milioni di renminbi (quasi 250 milioni di euro) nella peggiore. E non è la città messa peggio, perché a Shanghai sarebbero andati in fumo (letteralmente), oltre 2 miliardi e seicento milioni di renminbi (circa 316 milioni di euro) nello scenario più negativo (556 milioni – 67 milioni di euro, in quello più positivo).

Se riuscissero a rientrare negli standard promossi dall’Organizzazione Mondiale della Salute, le quattro città in esame potrebbero risparmiare circa 5 miliardi e mezzo di renminbi l’anno.
Lo studio Beida-Greenpeace rappresenta la prima collaborazione tra un’istituzione ufficiale cinese e un’organizzazione internazionale per rendere trasparenti i dati relativi all’inquinamento. Segno che i tempi stanno cambiando, ma il problema è: cambieranno abbastanza in fretta?

Oltre a sottolineare che carbone, azoto e solfati sono le principali sostanze inquinanti, la ricerca evidenziava infatti che i settori dell’industria e dell’energia sono i maggiori responsabili.
E qui la materia diventa scivolosa, perché ragione economica si scontra con ragione economica.

Prendiamo il caso dell’inquinamento dovuto alla motorizzazione in crescita. In Cina, le istituzioni che si occupano della tutela ambientale hanno già più volte ritardato il lancio a livello nazionale di più severe norme sulle emissioni dei veicoli, perché la produzione di carburante più pulito è rimasta indietro. Il punto è che aggiornare le raffinerie per soddisfare standard più rigorosi costa, e il management delle grandi compagnie petrolifere, che essendo di Stato ha legami a doppio filo con l’establishment politico, fa quadrato contro le nuove norme che arrivano da Pechino. La commissione competente per la qualità del carburante in Cina è in parte costituita da rappresentanti del settore ed è presieduta da un funzionario della Sinopec, cioè la China Petrochemical Corporation, il gruppo maggiore per capacità di raffinazione. 
Sinopec, da parte sua, dichiara che ha iniziato a vendere una qualità di carburante più elevata a partire dal 2008 e che ha speso 200 miliardi di yuan (24 miliardi di euro) per il miglioramento della qualità dei carburanti negli ultimi dieci anni.

È un tira e molla che rimanda ancora una volta al problema delle grandi imprese di Stato, ma non solo. È tutto il modello di sviluppo a essere in questione, anche se è difficile che la Cina riesca a riconvertirsi in fretta. 
Per questo motivo, alcuni analisti sostengono che il picco dell’emergenza ambientale non sia ancora stato raggiunto.
Wang Jinnan, vice-direttore dell’Accademia cinese di Pianificazione Ambientale, sostiene per esempio che il Paese deve ancora fare i conti con la quantità di tossine che si sono infiltrare nel suolo, un problema per i decenni a venire: “Anche se è giusto dire che alcuni inquinanti tradizionali, come l’anidride solforosa, sono stati messi sotto controllo, altri problemi che comportano rischi anche maggiori per la salute non hanno ancora ottenuto l’attenzione politici”, ha dichiarato al South China Morning Post.
Hao Jiming, un altro esperto di inquinamento, sostiene invece che potrebbe essere necessario attendere fino al 2050, per respirare aria in linea con gli standard dell’Organizzazione Mondiale della Salute.

Nella guerra dei numeri, uno può forse toccare i nervi scoperti della leadership cinese che, ricordiamolo, deve però misurarsi con la resistenza degli interessi costituiti: secondo uno studio della Bank of America – ripreso però anche da esperti cinesi – nel 2009 la distruzione ambientale costò il 3,8 per cento del Pil. Dato che la crescita in quell’anno fu del 9,2 per cento, il tasso reale sarebbe stato del 5,4 per cento. E da allora, la situazione è per molti versi peggiorata.

In una Cina che ha costruito sulla crescita del benessere l’organizzazione del consenso, questo forse conta più di tutto.