Non può esserci ricchezza più diffusa senza lotta alla corruzione. Il malaffare, olio negli ingranaggi del boom cinese, sembra oggi essere il suo limite; ma è così radicato che l’impresa di fare piazza pulita appare ciclopica
Buone intenzioni che rischiano però di restare vane. Il governo cinese ha di recente varato le linee guida per la redistribuzione dei redditi, la grande riforma resa necessaria dall’acuirsi della diseguaglianza sociale e dalla progressiva insofferenza di chi è rimasto indietro. Tutti i cinesi hanno beneficiato della crescita economica, sia inteso. Ma i redditi della popolazione benestante (generalmente urbana) continuano a crescere più di quelli della fascia più povera, il che aumenta la diseguaglianza percepita, cioè l’insoddisfazione.
Non solo. Aumentare i redditi di chi sta in basso serve anche a compiere una fondamentale trasformazione del sistema economico cinese: da economia export-oriented a consumer-oriented, basata cioè sul mercato interno. Ciò di cui ha bisogno il Dragone per superare la fase di “fabbrica del mondo”.
I punti fondamentali della riforma sono i seguenti:
– ottenere un maggiore contributo economico dalle grandi imprese di Stato (Soe) per finanziare il welfare. Finora, le Soe hanno beneficiato di grandi vantaggi. Hanno per esempio dovuto restituire al fisco un parte minima dei propri profitti, così come agli azionisti individuali. Ora, si punta a far loro pagare più tasse e dividendi;
– liberalizzazione dei tassi d’interesse. Finora sono stati decisi politicamente e tenuti artificialmente bassi. Ne hanno beneficiato le Soe (sempre loro), che hanno potuto accedere a prestiti privilegiati, mentre i singoli risparmiatori, cioè le famiglie, hanno tenuto in banca conti correnti praticamente improduttivi. Spesso, l’inflazione è cresciuta più delle rendite basate sui tassi d’interesse, imponendo quindi un segno meno ai bilanci familiari;
– sollevare in parte i governi locali dagli obblighi di spesa fiscale, rendendo la loro ricerca di risorse un po’ meno disperata. La necessità di finanziarsi (da cui dipende anche la carriera dei funzionari) ha infatti reso generalizzata la pratica degli espropri di terre dei contadini e la loro collocazione successiva sul mercato immobiliare, con la creazione di una bolla speculativa difficile da frenare;
– riforma dell’hukou, il sistema di residenza obbligatoria che vincola i cinesi al luogo di residenza, l’unico in cui hanno diritti come l’istruzione e l’assistenza sociale. Rendendo più facile il trasferimento della residenza, si allargherebbero i benefici goduti dalla popolazione delle città a milioni di ex contadini inurbati.
Come si vede, molto gravita attorno alle grandi imprese di Stato, sulle quali pesa però un’incognita. Attraverso il prelievo fiscale e dividendi più alti, dovrebbero in futuro dare un forte contributo alla redistribuzione. Ma, anche sulla carta, questo contributo non appare ancora adeguato.
Le Soe restituiscono oggi agli azionisti circa il 9 per cento dei propri profitti. L’anno scorso, al ministero dell’Economia si discuteva di portare questa quota al 50 per cento. La montagna ha partorito il topolino, perché in base alle linee guida proposte ora, entro il 2015 i dividendi dovrebbero aumentare del 5 per cento, arrivare cioè al 15 per cento circa. È ancora troppo poco rispetto al 23 per cento di media delle imprese quotate alla borsa di Hong Kong e, soprattutto, rispetto al 50-60 per cento delle public company Usa.
Della natura ibrida delle imprese di Stato, a cavallo tra avanguardia dell’espansione economica cinese nel mondo e baracconi improduttivi tenuti in piedi da favoritismi politici, abbiamo già parlato. Di nuovo, sembra che accordi politici dietro le quinte abbiano ridotto la portata della riforma che le riguarda.
Le linee guida sembrerebbero comunque un notevole passo avanti. Il condizionale è però d’obbligo perché la Cina non è la Scandinavia. Sul cammino di una maggiore eguaglianza, il vero ostacolo resta il “reddito grigio”, figlio della corruzione che continua ad acuire la disparità, alla faccia delle nuove linee guida. È sempre servita per oliare il motore dello sviluppo, oggi sembra il suo grande ostacolo. Se ne sono accorti anche quegli occidentali che, tra forza lavoro a basso costo, dogane abilmente aggirate e pagamenti in nero si sono ritagliati una fetta della torta. Ora, si trovano spesso a investire in imprese inesistenti.
Reuters cita i casi della società cinese che “registrata come produttore di schermi televisivi high-tech, si è poi rivelata un’impresa composta da una sola persona che vendeva fuochi d’artificio in una baracca”. Oppure c’era quell’impianto di biodiesel “rimasto inattivo per mesi, che ha poi preso vita per un giorno – quando gli investitori si sono presentati per un tour – solo per scomparire poi di nuovo nel nulla”.
C’è quindi la recente vicenda di Caterpillar, su cui ci siamo già soffermati.
Questi fenomeni non potrebbero esistere senza un bel giro di mazzette dietro le quinte.
Ed ecco quindi la manovra a tenaglia del leader Xi Jinping, che vuole accompagnare le norme sulla redistribuzione alla lotta contro la corruzione: senza la seconda, la prima non può funzionare. La luna di miele tra il popolo cinese e il nuovo segretario-futuro presidente si è già esaurita – osserva un amico economista – la gente si aspetta cambiamenti sostanziali.
China Daily comunica oggi che da un’indagine tra 700mila imprese cinesi sono emersi 9.400 casi di malaffare compiuti negli ultimi cinque anni. Dal giro di vite, sarebbero stati recuperati circa 800 miliardi di yuan (quasi 100 miliardi di euro). Sono numeri riportati per impressionare e, in parte rassicurare. Non si sa quanto accurati.
L’impressione vera è che le vie della corruzione siano infinite e chi vive in Cina sa bene che qui, ancor più che in Italia, ogni nuova legge sembra fatta per essere aggirata l’istante successivo. Ci siamo tutti un po’ abituati, spesso ci sguazziamo.
È l’eredita che oggi si scopre pesantissima del messaggio di Deng Xiaoping. Il leader delle “riforme e aperture” diede inizio all’accelerato boom cinese affermando che qualcuno si sarebbe arricchito prima degli altri, lasciando intendere che il potere avrebbe chiuso un occhio, anzi due, su un certo grado di corruzione. Se questa fosse servita a stimolare la crescita, si intende. Era forse l’unico modo per pungolare la massa inerte dei funzionari facendo in modo che si trasformassero in imprenditori: "Andate, fate leva sulle vostre posizioni chiave nelle imprese di Stato e nell’allocazione delle risorse comuni e arricchitevi. È glorioso".
I punti fondamentali della riforma sono i seguenti:
– ottenere un maggiore contributo economico dalle grandi imprese di Stato (Soe) per finanziare il welfare. Finora, le Soe hanno beneficiato di grandi vantaggi. Hanno per esempio dovuto restituire al fisco un parte minima dei propri profitti, così come agli azionisti individuali. Ora, si punta a far loro pagare più tasse e dividendi;
– liberalizzazione dei tassi d’interesse. Finora sono stati decisi politicamente e tenuti artificialmente bassi. Ne hanno beneficiato le Soe (sempre loro), che hanno potuto accedere a prestiti privilegiati, mentre i singoli risparmiatori, cioè le famiglie, hanno tenuto in banca conti correnti praticamente improduttivi. Spesso, l’inflazione è cresciuta più delle rendite basate sui tassi d’interesse, imponendo quindi un segno meno ai bilanci familiari;
– sollevare in parte i governi locali dagli obblighi di spesa fiscale, rendendo la loro ricerca di risorse un po’ meno disperata. La necessità di finanziarsi (da cui dipende anche la carriera dei funzionari) ha infatti reso generalizzata la pratica degli espropri di terre dei contadini e la loro collocazione successiva sul mercato immobiliare, con la creazione di una bolla speculativa difficile da frenare;
– riforma dell’hukou, il sistema di residenza obbligatoria che vincola i cinesi al luogo di residenza, l’unico in cui hanno diritti come l’istruzione e l’assistenza sociale. Rendendo più facile il trasferimento della residenza, si allargherebbero i benefici goduti dalla popolazione delle città a milioni di ex contadini inurbati.
Come si vede, molto gravita attorno alle grandi imprese di Stato, sulle quali pesa però un’incognita. Attraverso il prelievo fiscale e dividendi più alti, dovrebbero in futuro dare un forte contributo alla redistribuzione. Ma, anche sulla carta, questo contributo non appare ancora adeguato.
Le Soe restituiscono oggi agli azionisti circa il 9 per cento dei propri profitti. L’anno scorso, al ministero dell’Economia si discuteva di portare questa quota al 50 per cento. La montagna ha partorito il topolino, perché in base alle linee guida proposte ora, entro il 2015 i dividendi dovrebbero aumentare del 5 per cento, arrivare cioè al 15 per cento circa. È ancora troppo poco rispetto al 23 per cento di media delle imprese quotate alla borsa di Hong Kong e, soprattutto, rispetto al 50-60 per cento delle public company Usa.
Della natura ibrida delle imprese di Stato, a cavallo tra avanguardia dell’espansione economica cinese nel mondo e baracconi improduttivi tenuti in piedi da favoritismi politici, abbiamo già parlato. Di nuovo, sembra che accordi politici dietro le quinte abbiano ridotto la portata della riforma che le riguarda.
Le linee guida sembrerebbero comunque un notevole passo avanti. Il condizionale è però d’obbligo perché la Cina non è la Scandinavia. Sul cammino di una maggiore eguaglianza, il vero ostacolo resta il “reddito grigio”, figlio della corruzione che continua ad acuire la disparità, alla faccia delle nuove linee guida. È sempre servita per oliare il motore dello sviluppo, oggi sembra il suo grande ostacolo. Se ne sono accorti anche quegli occidentali che, tra forza lavoro a basso costo, dogane abilmente aggirate e pagamenti in nero si sono ritagliati una fetta della torta. Ora, si trovano spesso a investire in imprese inesistenti.
Reuters cita i casi della società cinese che “registrata come produttore di schermi televisivi high-tech, si è poi rivelata un’impresa composta da una sola persona che vendeva fuochi d’artificio in una baracca”. Oppure c’era quell’impianto di biodiesel “rimasto inattivo per mesi, che ha poi preso vita per un giorno – quando gli investitori si sono presentati per un tour – solo per scomparire poi di nuovo nel nulla”.
C’è quindi la recente vicenda di Caterpillar, su cui ci siamo già soffermati.
Questi fenomeni non potrebbero esistere senza un bel giro di mazzette dietro le quinte.
Ed ecco quindi la manovra a tenaglia del leader Xi Jinping, che vuole accompagnare le norme sulla redistribuzione alla lotta contro la corruzione: senza la seconda, la prima non può funzionare. La luna di miele tra il popolo cinese e il nuovo segretario-futuro presidente si è già esaurita – osserva un amico economista – la gente si aspetta cambiamenti sostanziali.
China Daily comunica oggi che da un’indagine tra 700mila imprese cinesi sono emersi 9.400 casi di malaffare compiuti negli ultimi cinque anni. Dal giro di vite, sarebbero stati recuperati circa 800 miliardi di yuan (quasi 100 miliardi di euro). Sono numeri riportati per impressionare e, in parte rassicurare. Non si sa quanto accurati.
L’impressione vera è che le vie della corruzione siano infinite e chi vive in Cina sa bene che qui, ancor più che in Italia, ogni nuova legge sembra fatta per essere aggirata l’istante successivo. Ci siamo tutti un po’ abituati, spesso ci sguazziamo.
È l’eredita che oggi si scopre pesantissima del messaggio di Deng Xiaoping. Il leader delle “riforme e aperture” diede inizio all’accelerato boom cinese affermando che qualcuno si sarebbe arricchito prima degli altri, lasciando intendere che il potere avrebbe chiuso un occhio, anzi due, su un certo grado di corruzione. Se questa fosse servita a stimolare la crescita, si intende. Era forse l’unico modo per pungolare la massa inerte dei funzionari facendo in modo che si trasformassero in imprenditori: "Andate, fate leva sulle vostre posizioni chiave nelle imprese di Stato e nell’allocazione delle risorse comuni e arricchitevi. È glorioso".
Puntualmente questo è avvenuto. Oggi, però, buona parte dell’establishment sembra organico al sistema del malaffare. Troppo.
Difficile sradicare la corruzione. Anche con una campagna dalle tinte savonaroliane.
Difficile sradicare la corruzione. Anche con una campagna dalle tinte savonaroliane.