Tra Cina e Corea del Nord i rapporti economici sono dettati soprattutto dalla ragion di Stato. Ma appaiono in crescita e anche dal punto di vista del business hanno un loro senso. Da Pyongyang, minerali rari per Pechino.
Nel 2007, il gruppo minerario aveva infatti cominciato la costruzione di un impianto per la lavorazione dei minerali di ferro, ma nel 2012 i funzionari di Pyongyang hanno improvvisamente chiuso lo stabilimento, espulso i cento lavoratori cinesi e chiesto “modifiche al contratto” che sono risultate poi essere 800mila dollari in tangenti. Xiyang avrebbe perso, nella sua spedizione nel “regno eremita”, circa 53 milioni di dollari.
Chi è abituato a fare business nel Celeste Impero, dove i contratti si trasformano spesso in organismi viventi che evolvono inevitabilmente verso maggiori vantaggi per la parte cinese, avrà senz’altro già pensato con qualche compiacimento alla legge del taglione.
Fatto sta che le cronache parlano di decine di imprese cinesi truffate in Corea del Nord, dove il regime di Pyongyang non fa altro che estendere all’economia ciò che già fa in politica: se non mi fai vincere, me ne vado con il pallone; e già che ci sono faccio scoppiare anche una bombetta, va.
Questa storia ci dice che per la Cina, economicamente, la Corea del Nord è un affare non necessariamente vantaggioso. Anzi, quasi certamente pessimo. Tuttavia dal 2000, il commercio bilaterale tra i due Paesi è aumentato di dodici volte, fino alla cifra record di 6,03 miliardi dollari. Niente, rispetto ai 215 miliardi dell’interscambio sino-coreano (del Sud), ma va registrata la crescita. Follow the money, si dice in inglese, e questi numeri ci dicono forse molto di più di quanto ci dica la condanna di Pechino nei confronti dell’ultimo test nucleare di Pyongyang.
La crescita dell’interscambio è trainata dalle risorse naturali: la Cina rimane la principale fonte di petrolio per la Corea del Nord, mentre l’esportazione principale in senso contrario riguarda i minerali, quelli di ferro in particolare (come si è visto). I nordcoreani hanno anche cominciato a lavorare sull’informatizzazione e sulla messa in Rete del Paese, con le importazioni di computer e di componenti provenienti dalla Cina: una crescita media del 61 per cento all’anno tra il 2005 e il 2010.
C’è poi il commercio spicciolo, soprattutto underground, in direzione Corea: elettronica di consumo, vestiti, copie pirata di film, dischi, spettacoli televisivi. Un flusso non quantificabile ma, a detta di tutti, in crescita.
Così come il fenomeno dei cittadini nordcoreani in Cina. Secondo Radio Free Asia – emittente al servizio di Washington che utilizza però statistiche ufficiali cinesi – sarebbero aumentati del 18 per cento tra 2011 e 2012. Attraverserebbero il confine soprattutto per ragioni di lavoro (79.600 persone, il 44 per cento del totale) o commerciali (55.200 persone, il 31 per cento del totale), e rappresenterebbero un incremento degli scambi economici e delle joint venture tra i due Paesi.
Il sito Nk.News.org riporta le parole di John Park, del Mit di Boston, secondo cui “è come se la Corea del Nord volesse ampliare il proprio sviluppo economico saltando in sella in groppa alla Cina”. E dal punto di vista finanziario, “c’è la possibilità che il maggior numero di lavoratori nord-coreani che si recano all’estero abbia un ruolo fondamentale nella creazione di valuta pregiata per supportare il governo di Kim Jong Un a Pyongyang”, aggiunge Park.
Nei rapporti economici tra i due Paesi gioca un ruolo fondamentale lo sviluppo di Zone Economiche Speciali in terra coreana, nei pressi del confine con la Cina. Dovrebbero svolgere lo stesso ruolo del modello originario, che fu il trampolino di lancio per il decollo del Dragone. La più importante è quella di Rason, un porto che si affaccia sul Mar del Giappone, all’intersezione tra Corea del Nord, Cina e Russia. Qui, Pechino sta costruendo i collegamenti stradali e ferroviari, l’aeroporto e la centrale elettrica, per un investimento complessivo che potrebbe raggiungere i 3 miliardi di dollari. In cambio, ottiene un accesso privilegiato ai pontili.
Alla Cina, al di là delle valutazioni geopolitiche, conviene la relazione economica con il vicino scomodo?
È forse utile fare un confronto con gli scambi che la legano al Giappone.
Nel 2011 l’interscambio tra Pechino e Tokyo ammontava alla cifra record di 345 miliardi dollari (per la Cina, il Giappone è il terzo partner commerciale dopo Unione Europea e Stati Uniti). Nonostante il rallentamento dovuto alla tensione per le isole Diaoyu/Senkaku, gli investimenti diretti del Giappone in Cina sono aumentati ancora del 16,3 per cento anno su anno nel 2012.
A detta di molti analisti, i rapporti autenticamente economici, vantaggiosi per entrambi i partner, sono l’unico vero deterrente a un conflitto tra i due Paesi tradizionalmente ostili.
Con la Corea del Nord sembrerebbe valere il discorso esattamente opposto: un Paese “fratello” che grava sulle proprie tasche e un interscambio al traino della ragion di Stato. In questa partnership “drogata”, la Cina è quindi inevitabilmente costretta a tenere in piedi la Corea del Nord fornendo petrolio e alte materie prime a prezzi scontati.
Ma attenzione, prima di trarre conclusioni affrettate. Il rapporto di favore è reciproco: anche Pyongyang – che si pensa sia comodamente adagiata su giacimenti di minerali rari del valore di 6mila miliardi di dollari – cede a Pechino le proprie risorse naturali a prezzi di favore. Il motivo è semplice: la Cina è l’unico acquirente.
In quest’ottica e dal punto di vista cinese, se qualche volta un contratto va male, se ogni tanto bisogna allungare una mazzetta al funzionario di turno, che sarà mai. Suvvia.