La Cina invecchia e bisogna trovare un sistema pensionistico efficiente. Il problema è enorme, se si pensa che da quasi vent’anni si cerca di riformare il vecchio modello, sempre più insostenibile e ingiusto. Ne parliamo con un luminare della materia. La seconda puntata di un viaggio nel welfare che (forse) verrà. “Perché la Cina ha bisogno di una riforma delle pensioni? Perché sta diventando sempre più vecchia”, taglia corto Dong Keyong, preside della facoltà di Pubblica Amministrazione all’Università del Popolo di Pechino. Con lui approfondiamo il secondo pilastro del welfare cinese che (forse) verrà, dopo avere già parlato di sistema sanitario.
Se in quel caso il nostro interlocutore aveva concluso che la natura stessa del sistema cinese suggerisce soluzioni totalmente di mercato, qui, come vedremo, l’indicazione va in direzione di un sistema misto. E incredibilmente complesso; da spaccarsi la testa.
“Il primo sistema pensionistico, in vigore dal 1952 al 1978, era copiato dall’Unione Sovietica”, spiega Dong. “Era a ripartizione [quello in cui si accantonano contributi pensionistici a carico dei datori di lavoro, ndr] e a prestazione definita”, cioè retributivo: la tua pensione è commisurata al tuo ultimo salario. Era un sistema tipico di una Cina povera, in cui le istituzioni si prendevano cura di ogni aspetto della vita personale, attraverso le danwei (le unità di lavoro) e le comuni popolari. Era soprattutto un sistema a “basso salario ed elevato beneficio”, spiega il professore: si guadagnava poco, ma in fondo era la vita a costare poco. Con la vecchiaia, si era poi sicuri di avere una pensione più o meno equivalente al vecchio salario.
Il meccanismo poteva funzionare proprio perché i salari erano molto bassi e, soprattutto, perché solo una parte della popolazione ne era coperta. Le pensioni riguardavano infatti solo il settore pubblico urbano.
“Quando, con le riforme di Deng, sorgono le aziende private, si vedono i primi lavoratori autonomi e anche le zone rurali sono investite da processi di deregolamentazione, all’improvviso si pone il problema di come garantire queste persone”.
Ma si crea anche un problema economico: “I salari hanno cominciato ad aumentare parecchio e, a questo punto, il sistema retributivo non è più sostenibile”, spiega Dong.
Arrivano poi gli anni Novanta, con le grandi dismissioni delle gigantesche imprese di Stato (1995-2003), i fallimenti, i licenziamenti, il graduale travaso dell’ex massa operaia di Stato verso il piccolo business in proprio o le aziende private. È sempre più necessario un nuovo modello di erogazione della garanzie per la vecchiaia, che possa coprire tutti i tipi di attività.
“Nel 1997, il premier Zhu Rongyi cerca di unificare il sistema pensionistico. Il primo passo consiste nel creare un modello per le aziende private, ma poi non riesce a mettere mano agli altri settori. E siamo ancora a quel punto lì”, racconta Dong.
Oggi abbiamo quindi tre tipi di regimi:
– Un sistema per le imprese private basato su due livelli. Il primo livello è a sua volta diviso in due, in parte a ripartizione e retributivo (come quello delle vecchie imprese di Stato) e in parte contributivo (a seconda di quanto l’impresa accantona sul salario del dipendente), in modo che sia l’impresa sia il lavoratore ci mettano soldi. Il secondo livello è soltanto previdenza complementare, ovvero quello che il lavoratore paga di sua iniziativa, sul modello delle assicurazioni private. Se uno sceglie di avere solo il primo livello, la sua pensione sarà poi circa il 55 per cento del suo ex stipendio; se sul primo, innesta anche il secondo, alla fine arriverà al 75 per cento del suo vecchio reddito.
– Il sistema pubblico rimane più o meno uguale a prima.
– Il sistema pensionistico rurale è un oggetto di cui si discute molto, ma finora è vago. In attesa che si crei quello unificato, abbiamo oggi un sistema simile a quello pubblico ma volontario, con contributi più bassi, che differisce da zona a zona e a cui aderisce solo il 9 per cento della popolazione rurale (54 milioni di persone).
“La discussione in corso cerca di fondare un sistema unico – spiega Dong – e il modello prescelto dovrebbe essere quello della aziende private. Ma in una società complessa come quella cinese, i problemi abbondano e si intersecano”.
Il primo ostacolo consiste nel fatto che oggi gli uomini vanno in pensione a 60 anni e le donne a 55 (per lo meno, chi ci va). Non è più sostenibile. Come già accaduto anche in Italia, si vorrebbe ritardare l’età pensionabile, ma qui bisogna fare i conti con la fortissima opposizione dell’opinione pubblica.
C’è poi il problema di come eventualmente travasare il sistema delle imprese private nel settore pubblico. “I funzionari pubblici già a riposo – dice il professore – saranno svantaggiati, dato che la loro pensione si basa ancora sul principio ‘basso salario ed elevato beneficio’. Insomma, prendono pochi soldi”. Se un aumento generalizzato dei redditi porterà l’inevitabile crescita dei prezzi al consumo, si vivrà il paradosso per cui i vecchi privilegiati del sistema si troveranno inevitabilmente scaraventati sul fondo della scala sociale (almeno a livello teorico: difficile immaginare un vecchio dipendente pubblico che non abbia messo da parte il “tesoretto” di uno o due appartamenti da affittare. Ma tant’è).
C’è inoltre l’incognita della “generazione di mezzo”, cresciuta nel servizio pubblico (“cioè il sottoscritto”, ci tiene a puntualizzare Dong, docente universitario): gli attuali 55-60enni, quelli che ancora lavorano ma sono prossimi alla pensione. “Come si fa a calcolare il nostro assegno? Con il vecchio sistema o con il nuovo?”
Questi lavoratori, soprattutto, non hanno nessun conto individuale, cioè i soldi accantonati volontariamente. Il problema è così diffusamente avvertito, che l’assenza di fondi ha già preso l’inquietante nome di “debito invisibile”.
A seguire, ecco il problema delle enormi differenze tra le diverse province, sia negli stipendi medi, sia nella capacità del governo locale di finanziare il sistema. (È notizia di oggi che le amministrazioni locali potranno finanziare il proprio debito attraverso l’emissione di bond. Si trattava di una delle soluzioni più urgenti suggerite anche dalla Banca Mondiale per fare fronte al problema fiscale cinese e alla voragine nei conti delle amministrazioni; quel buco nero che induce la “politica della terra”, cioè la speculazione edilizia. Ma siamo solo agli annunci, per ora).
“I cinesi si spostano sempre più da una regione all’altra – spiega Dong – ma il Paese è estremamente decentralizzato, ogni governo mantiene il proprio tipo di finanziamento e il divario è enorme. In Europa non c’è problema, perché se uno si sposta dalla Francia alla Germania, i governi conservano la registrazione dei suoi contributi e alla fine si fanno i conti. In Cina non esiste ancora un sistema di questo tipo”. Su questo, si innesta il problema delle differenze di regime tra città e campagna, cioè i diversi hukou (residenze). Per esempio: “I lavoratori migranti che si spostano dalle campagne alla città e poi tornano in campagna. Dato che il sistema pensionistico urbano e quello rurale sono diversi [più che altro, il secondo non c’è, ndr], come si fa a calcolare il loro assegno?”
Infine c’è un fatto culturale: “I dipendenti pubblici non vogliono sottrarre i contributi alla propria busta paga per alimentare il conto personale. Vivono questa ipotesi come un furto, perché i tassi di interesse dei fondi in cui i soldi vengono accantonati sono bassi”. Preferiscono quindi avere tutti il denaro adesso e magari investire per conto proprio nel mercato immobiliare. “Questo è il motivo per cui recentemente gli insegnanti sono scesi in sciopero nella provincia nord occidentale dello Heilongjiang”, spiega Dong. “Sono preoccupati perché le politiche non sono dettagliate e ci capiscono poco. Così vogliono stare sicuri e andare in pensione con il vecchio sistema”.
Se il problema di come omologare i diversi regimi pensionistici appare enorme, è ancora più difficile rispondere alla domanda: come finanziare il nuovo, ipotetico, sistema pensionistico unificato?
Secondo Dong, tre sono gli strumenti:
– Aumentare le tasse sulle imprese;
– Emettere titoli di Stato (e, come abbiamo visto, forse ci stiamo arrivando);
– Costituire fondi pensione che investano in borsa. “Tutto il secondo pilastro, cioè il conto individuale, deve essere investito sul mercato dei capitali”, sostiene il professore. “Ma prima bisogna migliorarlo, quel mercato, altrimenti la gente continua a buttare soldi nell’immobiliare”.
Insomma, i problemi sono colossali, ma Dong è convinto che siano tre i pilastri del futuro sistema pensionistico cinese. “Collegati tra loro”, aggiunge:
– Una parte di finanziamenti governativi, che raggiungano tutti;
– L’allungamento dell’età pensionabile (“se si desidera una vita migliore in vecchiaia, è necessario lavorare più anni”);
– La costituzione di fondi pensione da cui attingere per investimenti mirati nel sistema finanziario.
“Questi sono i presupposti necessari di un sistema stabile”, conclude l’esperto di pensioni-quasi in pensione, Dong Keyong.