Ritorna la rubrica economica di China-Files con una domanda da miliardi e miliardi di yuan: come dare un welfare ai cinesi? Ecco il caso dell’assistenza agli anziani, dove sembra che il modello occidentale che piace alla leadership sia quello Usa. Chi trascorre l’estate in Europa per dare sollievo ai propri polmoni “pechinizzati” si sente spesso chiedere da amici come funziona il welfare cinese: “Le pensioni? E il sistema sanitario?” Sono le inquietudini di un continente che fu ricco e giusto, il sottile terrore di perdere diritti in parallelo al reddito, automaticamente proiettati sul Paese divenuto sinonimo di crescita: loro, che i soldi li stanno facendo, come li usano?
Ora, è fin troppo facile rispondere: “In Cina non c’è welfare”. A questo punto, se sta parlando con amici italiani, lo scrivente aggiunge sempre il colpo ad effetto: “Guarda, l’Italia è una schifezza, ma c’è una cosa che è la migliore del mondo. No, no, no, chi se ne frega della cucina, in Cina è buona e varia almeno quanto la nostra: è il Sistema Sanitario Nazionale [detto in maiuscolo]”.
Si prosegue quindi spiegando che il boom cinese degli ultimi trent’anni si basa anche, in parte, sullo smantellamento del precedente welfare: povero, forse insufficiente, ma giusto. La danwei (unità di lavoro) e la comune popolare che pensano a tutto per te, manco fossero lo Stato svedese. La “ciotola di ferro” e i “medici scalzi”. Vuoi mettere, che commozione i medici scalzi: contadini che conoscono i rudimenti della medicina, cinese e non, e si prendono cura amorevolmente dei tuoi acciacchi. E dove non serve il il medico, ecco la famiglia o la comune popolare. Così il vecchio non si sente vecchio, ma patriarca, integrato nell’ordine delle cose. E tre generazioni dormono sotto lo stesso tetto: tanto, anche a volerlo, chi si muove dal villaggio vattelapesca o dall’hutong pincopallo?
Arriva Deng Xiaoping e smantella tutto, privatizza: il medico scalzo che ce la fa a passare l’esame di Stato diventa medico-medico a pagamento, le giovani generazioni emigrano in città in cerca di lavoro e senza diritti, gli anziani sono lasciati soli, si comincia a risparmiare per garantirsi una vecchiaia decente o la possibilità di uscire dalla malattia non in orizzontale. Anziani con rotoli di banconote infilati nei calzoni si aggirano disperati per gli ospedali.
Ora, il potere cinese è chiamato a ricostruire un welfare, o una parvenza di esso, per lenire gli effetti di una diseguaglianza sociale sempre più stridente.
Il dibattito è aperto: si muoveranno in direzione del modello europeo o di quello Usa? Pensioni, sanità, assistenza sociale garantite dallo Stato o messe sul mercato?
Un’indicazione si può cogliere osservando quanto sta succedendo con l’assistenza agli anziani. Gli ultrasessantenni sono oggi 200 milioni, diverranno oltre il doppio nel giro di 40 anni. Sette milioni e mezzo di cinesi superano la soglia delle sessantacinque primavere ogni anno.
Non solo, il profilo sanitario del Paese sta cambiando e, con il capitalismo, si importano dall’Occidente anche le patologie connesse: malattie cardiache, ictus, pressione alta e diabete sono sempre più diffusi tra i vecchi (e non solo).
Nell’assistenza all’anziano, sembra che si stia andando verso qualcosa di molto simile all’American way, ovviamente secondo caratteristiche cinesi: mercato, quindi, e non Stato. Un primo assaggio di “caratteristiche cinesi” si è avuto a luglio, con l’introduzione della cosiddetta legge sulla “pietà filiale” che, in pratica, impone ai giovani di andare a far visita ai vecchi.
Intesa per imporre dall’alto la virtù confuciana caduta nell’oblio, la nuova legge ha da subito prodotto, oltre alle ironie in Rete, un mercato, non si sa quanto florido, di “parenti a pagamento”, disponibili nei siti di e-commerce: se sborsi, io vado a trovare la nonnina al tuo posto.
Data questa predisposizione diffusa al business, non stupisce che si punti quindi sull’American way. Li Keqiang, il premier, ha annunciato il 16 agosto che saranno tolti gli intoppi burocratici e ridotti i costi per chi, straniero, vuole ricreare in Cina il modello assistenziale basato sui fondi privati. Si cerca soprattutto di dare impulso all’assistenza domiciliare – portare la spesa a casa, lavare, cambiare il pannolone, fare compagnia – stimolando un business che negli Usa produrrà circa 300 miliardi di dollari di introiti annui entro il 2016.
Il punto è: come farlo in Cina? Altrimenti detto: chi paga l’assistenza privata?
La settimana scorsa, a Pechino, la multinazionale del risparmio gestito Columbia Pacific ha inaugurato in pompa magna il suo secondo progetto cinese, alla presenza dell’ambasciatore Usa, Gary Locke, e del viceministro cinese degli Affari Civili, Dou Yupei: la residenza per anziani “L’Amore” (sic) offrirà ai suoi ospiti assistenza completa, nonché partite di mahjong , lezioni di tai chi e karaoke per rette di circa 2.000-3.000 dollari al mese.
Siamo da capo: chi paga? Ça va sans dire che nel primo ricovero della Columbia in Cina, a Shanghai, solo 25 dei 100 posti letto sono occupati.
Il rischio è che un modello del genere, se non sussidiato ampiamente dal governo, sia l’ennesimo riproduttore di diseguaglianza. Chi paga è assistito, gli altri si arrangino. E quindi c’è poca scelta. Se Pechino vuole davvero accudire i suoi anziani "all’americana", i 2.000-3.000 dollari al mese ce li deve mettere lo Stato. Un modello lombardo si aggira per la Cina; un San Raffaele è in agguato dietro l’angolo.