Yu Hua, 58 anni, è lo scrittore che oggi rappresenta al meglio la letteratura cinese contemporanea. Voce potente, arguta e spietata, Yu Hua si è ritagliato un posto importante anche in Occidente, grazie alla sua capacità di raccontare la storia cinese, specie quella violenta e caotica dell’epoca maoista, attraverso le vicende personali di personaggi capaci di avvicinare sentimentalmente il lettore occidentale alle dinamiche più intime della società cinese. La sua produzione letteraria ha attraversato la storia della Cina passando per Vivere! (Donzelli, 1998, traduzione di N.Pesaro), da cui ha tratto un film Zhang Yimou, per le Cronache di un venditore di sangue (Einaudi, 1999, traduzione di M.R.Masci), nel quale il periodo maoista diventa una corsa a ostacoli all’interno dell’universo personale del protagonista, per arrivare a Brothers (Feltrinelli, 2008, traduzione di S.Pozzi) e Arricchirsi è glorioso (Feltrinelli, 2009, traduzione di S.Pozzi), volumi che solcano il periodo più complesso della Cina, la Rivoluzione culturale e la successiva corsa alla ricchezza dell’era di Deng Xiaoping.
Di recente ha pubblicato Il settimo giorno (Feltrinelli, 2017, traduzione S.Pozzi), romanzo nel quale Yu Hua si concentra sulla Cina contemporanea, mantenendo il carattere fantastico e grottesco delle proprie storie. Ex dentista, è diventato scrittore grazie alla sua costanza e grazie alla ricerca di una vita migliore: l’ispirazione alla scrittura gli arrivò osservando i suoi futuri colleghi scrittori del Centro culturale. «Dalla finestra avevo notato il viavai disinvolto di quelli del Centro culturale, provando una grande invidia. Una volta domandai a uno di loro: «Come mai non lavorate mai voi?» La risposta fu: «Fare su è giù per la strada è lavoro!». Questo è il mestiere che fa per me!, mi dissi». Così scrive Yu Hua nella sua opera non-fiction, La Cina in dieci parole (Feltrinelli, 2012, traduzione di S.Pozzi), un libro particolare che affronta la Cina odierna e le sue trasformazioni: «Solo noi cinesi abbiamo vissuto in due mondi completamente diversi nel giro di quarant’anni, e rimanendo nello stesso paese». Questo senso di straniamento, di vertigine e di improvvisa perdita dei punti di riferimento, costituisce il fulcro dell’opera di Yu Hua. Lo scrittore cinese, nato ad Hangzhou, venerdì 9 giugno è stato a Cagliari, intervistato da Giorgio Zanchini, all’interno del festival LeggendoMetropolitano.
Dopo «Brothers», sulla Rivoluzione culturale, anche «La Cina in dieci parole» è un libro collegato alla particolare «storia» cinese. Possiamo dire che con «Il Settimo Giorno» — invece — ha voluto affrontare la Cina degli ultimi 20 anni? E nel caso, da dove è nata questa esigenza?
È così. La Cina di oggi e quella della Rivoluzione culturale sono due mondi a parte, ho scritto Brothers spinto dal forte desiderio di raccontarli. Non bastava, volevo descrivere più in dettaglio questi due mondi sorti all’interno di un unico paese, con un’opera non-fiction, così è nata La Cina in dieci parole. A quel punto mi interessava concretizzare un’idea che avevo da tanto tempo, ma per cui non riuscivo a trovare l’approccio giusto, volevo raccogliere in un romanzo le assurdità della Cina degli ultimi vent’anni. Poi, un giorno, mi è venuto in mente l’incipit: un uomo muore e riceve una telefonata dal crematorio, gli dicono che è in ritardo per la cremazione. Ho capito che era giunto il momento di scrivere. Guardare il mondo dei vivi dalla prospettiva del mondo dei morti era la soluzione perfetta per condensare tante storie assurde e diverse in un solo romanzo. Ed ecco Il settimo giorno.
La letteratura cinese oggi vede una grande ondata di fantascienza e speculative fiction. Cosa pensa di questo genere?
Trovo che sia un fenomeno molto positivo, la letteratura ha bisogno di varietà. Autori e autrici raccontano storie cinesi, descrivono il paese dalla loro particolare angolazione, offrendo ai lettori ulteriori sguardi sulla realtà.
Le sue storie hanno spesso un contesto che attraversa le categorie del fantastico e dell’assurdo…
Esistono tanti modi per raccontare la Cina. L’assurdo è perfetto, perché la società cinese è piena di assurdità. Faccio un semplice esempio: uno va in viaggio in Cina, entra nella sua camera d’albergo e magari trova sul tavolino un posacenere con accanto la targa «Vietato fumare». Questo è esattamente ciò che racconto del mio paese, che ti dà un posacenere e poi ti dice di non fumare.
La narrazione odierna che in Occidente si fa della Cina è quella di una potenza responsabile, specie se paragonata a Trump, e razionale. Come è cambiata, secondo lei, l’immagine della Cina in Occidente?
Percepisco che lo sguardo dell’Occidente sulla Cina sta mutando, ho l’impressione che ci sia la volontà di osservarla in modo più obiettivo. Ho avvertito questo cambiamento dalle domande che mi fanno nelle varie interviste. Quando parlo del mio paese, non posso sorvolare sugli aspetti negativi, ma ci tengo anche a raccontare quelli positivi, e riscontro che i giornalisti occidentali sono d’accordo con quello che dico.
Ne «La Cina in dieci parole» lei definisce quanto accaduto nel 1989 — di cui in questi giorni ricorre l’anniversario del 4 giugno — come l’ultima fiammata della «politica» in Cina. Poi è stata tutta economia, crescita, stabilità. Quando ritornerà e come la politica in Cina?
A Tian’anmen nel 1989 non c’erano solo gli studenti, ma anche cittadini che arrivavano da ogni angolo del Paese. La gente scendeva nelle strade spinta da un’istanza politica. Oggi ci sono ancora persone che manifestano in Cina, certo sono fenomeni ridotti, comunque queste manifestazioni, che il governo definisce disordini collettivi, sono totalmente diverse da quelle degli anni Ottanta del secolo scorso. Non hanno nulla di politico. Si tratta sempre di difendere gli interessi di un gruppo. Qualche anno addietro, il Dipartimento per l’Istruzione del Jiangsu diramò un comunicato in base al quale le università della provincia avrebbero aumentato i posti riservati alle matricole provenienti dalle zone povere della Cina occidentale. La notizia scatenò il malcontento delle famiglie degli studenti della provincia, che si preparavano a sostenere gli esami di ammissione, temevano che per i loro figli diminuissero le chance di entrare all’università. I genitori scesero in piazza per protestare. Anche le manifestazioni degli impiegati in pensione di alcuni anni prima a Shanghai erano scaturite da un’analoga urgenza personalistica: paventavano che i fondi della previdenza sociale venissero destinati alle zone povere occidentali, a danno del welfare dei pensionati.
Oggi quali sono gli ambiti e gli argomenti più interessanti per poter continuare a descrivere la Cina contemporanea?
Credo sia interessante raccontare la Cina dal punto di vista di un’analisi delle disparità interne al paese. La Cina è un paese enorme con discrepanze immense tra Nord e Sud, Est e Ovest. E non solo per quanto riguarda lo sviluppo economico, ci sono anche differenze culturali, il divario tra città e campagna e via dicendo.
Qual è l’ultimo libro che ha letto e cosa cerca — da lettore — nei testi?
Ho appena ultimato la lettura della raccolta di poesie Il grande mistero di Tomas Tranströmer (pubblicato in Italia da Crocetti, ndr) nella traduzione cinese del sinologo svedese Nils Göran David Malmqvist. Ora sto leggendo un testo autobiografico del poeta, sempre tradotto da Malmqvist, I ricordi mi guardano (pubblicato in Italia da Iperborea, ndr). Leggo di tutto, a patto che si tratti di libri interessanti, e appassionanti.
di Simone Pieranni
(L’intervista è stata tradotta da Silvia Pozzi)
[Pubblicato su il manifesto]