Al calare della sera, la luna crea giochi di luce incantevoli sulla collina Yuquan, alle porte di Pechino. Si riflette nel lago Kunming irradiando un bagliore tenue. Qui, nei giardini di epoca Qing, da alcuni anni alloggiano gli alti funzionari dell’Esercito popolare di liberazione. Spesso anche i leader cinesi. Nel silenzio della notte una voce femminile irrompe sulle note di Happy Birthday. Poi una risata maschile anticipa uno scroscio di applausi. Lei è Peng Liyuan, la first lady cinese nonché il soprano più famoso di Cina. Lui è il presidente Xi Jinping, uno degli uomini più potenti del mondo. Con la città avviluppata nella calura estiva, è difficile immaginare un luogo migliore dell’antico Palazzo Jingmin per festeggiare un compleanno. Immaginare, appunto. La vita privata dei leader cinesi è considerata segreto di Stato. Non sappiamo realmente cosa sia successo quella sera, né chi fosse accanto al presidente. Quello che sappiamo di certo, però, è che lo scorso 15 giugno Xi Jinping ha compiuto 68 anni: l’età in cui, secondo le regole consuetudinarie del partito, gli alti papaveri lasciano la scena pubblica. Ci sono buoni motivi per credere che Xi non seguirà la tradizione.
Dal marzo 2018, un emendamento della costituzione cinese esonera la carica di presidente da qualsiasi restrizione temporale. E’ quindi molto probabile che Xi non lascerà l’incarico nel 2023, come imporrebbe il vecchio limite dei due mandati quinquennali. Giustificando la controversa riforma, al tempo, l’agenzia di stampa statale Xinhua spiegò che “l’attuale struttura del partito e delle istituzioni statali non è più sufficiente a soddisfare i requisiti per i vari compiti nella nuova era”, lanciata da Xi durante il 19° Congresso l’anno precedente, in concomitanza con l’introduzione del suo contributo ideologico nella costituzione del partito. Il concetto di “sogno cinese” prevede il raggiungimento di obiettivi a lunga scadenza che necessitano una guida stabile e duratura: la trasformazione della Cina in una “grande nazione socialista moderna” entro il 2035, e la riconfigurazione del paese in una nazione completamente sviluppata entro il 2049, centesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare.
Oltre la Grande Muraglia, il ruolo di presidente è perlopiù cerimoniale (il potere è concentrato nelle mani del segretario generale del partito e del capo delle forze armate, posizioni senza restrizioni temporali già ricoperte da Xi), ma serve in politica estera per mantenere rapporti istituzionali con gli altri leader. Secondo la retorica ufficiale, uniformare la successione tra tutte e tre le cariche dovrebbe quindi assicurare maggiore stabilità sul lungo periodo.
Giunto al potere dopo lotte intestine e scandali epocali, Xi è parso fin da subito voler imprimere una svolta. In pochi mesi, è arrivato a controllare i vertici del partito, dello stato e dell’esercito, laddove il suo predecessore Hu Jintao ci mise tre anni. Ha scardinato il concetto di leadership collegiale, imponendosi come “lingdao hexin” (“core leader”); ha sgominato gli avversari, riscritto la politica estera cinese, avviato una massiccia riforma degli apparati statali, dando maggiore centralità al partito. Il passo decisivo potrebbe avvenire durante il prossimo Congresso del 2022, quando – secondo diverse fonti – Xi riesumerà la carica di “presidente del partito”, abolita dopo la morte Mao Zedong per scongiurare un ritorno al culto della personalità.
Ambizioni personali a parte, le mosse di Xi rivelano da una parte la volontà di ridare lustro all’establishment comunista, affetto dalla corruzione dilagante e sempre più lontana dalle masse. Dall’altra, la necessità di adeguare la strategia estera al nuovo standing internazionale del paese: la Cina aspirante superpotenza mondiale lascia il basso profilo di Deng Xiaoping per difendere i propri interessi economici oltreconfine.
Come spiega il politologo Jude Blanchett su Foreign Policy, la rapidità travolgente con cui Xi ha agito fin dagli albori del suo mandato non è motivata dall’arroganza di chi, come lui, per nobiltà di sangue è nato e cresciuto nel ventre del partito.
Il decennio di Hu Jintao ha incrociato eventi epocali: la parabola discendente del modello occidentale – avviata dalla crisi finanziaria del 2008 e confermata dall’arrivo di Trump alla Casa Bianca – lascia campo aperto per una possibile ridefinizione dell’ordine internazionale a immagine e somiglianza di Pechino. Xi ha una finestra temporale di dieci quindici anni per tentare il sorpasso. Poi i vecchi nodi interni, sempre più difficili da districare, rischiano di strangolare l’ascesa del gigante asiatico. Dietro i numeri abbaglianti della crescita economica cinese permangono le solite criticità. Il debito dei governi locali e il rapido invecchiamento della popolazione restano la vera spina nel fianco. A ciò si aggiungono gli effetti collaterali del pugno di ferro: i toni rodomonteschi della diplomazia cinese stanno isolando la Cina sullo scacchiere mondiale, mentre il clima di tensione che aleggia negli uffici amministrativi inibisce tanto la sperimentazione quanto il regolare funzionamento dei meccanismi correttivi. Gli ordini del leader, giusti o sbagliati che siano, non si contestano. Si eseguono senza batter ciglio. CONTINUA A LEGGERE SU IL TASCABILE
Di Alessandra Colarizi
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.