Documento Numero 9

In by Simone

Il documento numero 9 va interpretato. L’esplicito rifiuto ai valori occidentali lascia presupporre che la battaglia all’interno del Partito non sia sopita.  L’auspicato passaggio a riforme economiche liberali, prime fra tutte lo smantellamento delle aziende di stato, incontra forte resistenza interna. L’analisi di China Files.
La prima domanda che è sorta leggendo l’articolo del New York Times sul documento «segreto» del Partito Comunista è stata: perché esce questo genere di indiscrezione, in questo momento? Del resto che il Partito Comunista cinese sia un animale storico misterioso è riconosciuto, ma nell’ultimo anno e mezzo il numero di documenti, report, memo interni «sfuggiti» e consegnati nelle mani dei media stranieri è stato piuttosto cospicuo.

Il documento inoltre, a chi segue quotidianamente gli affari politici cinesi, non è sembrato così originale. Alcune settimane fa alcuni media occidentali avevamo cominciato a pubblicare articoli nei quali si parlava di vari documenti interni al Partito nei quali il Presidente – e segretario del PCC – Xi Jinping invitava all‘unità ideologica.

Allora le domande diventano due: a cosa è dovuta questa stretta ideologica e perché un documento del genere finisce proprio sul New York Times, nemico giurato del Partito comunista cinese (basti pensare allo scoop contro le ricchezze dell’ex premier Wen Jiabao, che è valso il Pulitzer e l’oscuramento del sito del quotidiano in Cina e il mancato invito alla presentazione del nuovo Comitato Centale lo scorso novembre?).

Partiamo dal primo punto, la stretta ideologica. Non si tratta di una novità: un magazine di Hong Kong recentemente ha pubblicato stralci di quello che dovrebbe essere il fatidico Documento Numero 9, da cui emerge una dura critica dei valori occidentali nella loro totalità, attraverso il costante rivendicare la natura «cinese» del potere del Partito Comunista.

Si tratta di un punto fermo in Cina, nonostante a volte i richiami al marxismo possano sembrare ridicoli, specie se confrontati con una popolazione totalmente assorta da altri pensieri: arricchirsi, alcuni, sopravvivere, altri. Anche durante l’era delle Riforme – salutata con giubilo dal mondo occidentale – la centralità del Partito Comunista non è mai stata in discussione e anzi, proprio la repressione di Tian’anmen non ha fatto altro che riporre il Partito Comunista in una posizione di forza e centralità nella gestione del potere politico, e soprattutto economico.

I miliardari cinesi della prima ondata, infatti, sono stati proprio i funzionari del Partito: da un lato predicavano il marxismo, dall’altro approfittavano delle proprie posizioni per stringere accordi con le multinazionali occidentali. Allora nessuno si preoccupò dei richiami storici al comunismo e dell’ondata di repressione che seguì al massacro di Tiananmen.

Chi aprì fabbriche, chi sfruttò milioni di lavoratori cinesi, sembrava poco interessato alle direttive ideologiche di Deng Xiaoping prima e Jiang Zemin poi. Anzi il Partito, attraverso la «teoria delle tre rappresentanze», fu in grado di inserire al proprio interno anche quella nuova classe di capitalisti privati che cominciava a sorgere, grazie a investimenti stranieri e allo sviluppo urbanistico.

Xi Jinping è giunto al potere al termine di una lotta clamorosa all’interno del Partito Comunista. Bo Xilai, di cui si sta celebrando il processo, e tutta quella fazione considerata «neomaoista» è stata falcidiata come nelle migliori tradizioni dei partiti comunisti, ma ha lasciato una frattura che di fatto ha ridotto il PCC ad un luogo di guerra di tutti contro tutti. Xi Jinping dapprima ha nicchiato per consentire un passaggio dei poteri nel modo più indolore possibile, appoggiando di fatto l’ala che potremmo definire, benché si tratti di una semplificazione, «liberale».

C’era la necessità di fissare la data del Congresso, il Diciottesimo e consentire alla nuova dirigenza di palesare una presunta unità. Nel periodo che ha preceduto l’ascesa di Xi Jinping, i documenti interni, le soffiate, i rumors (perfino di un colpo di stato tentato a Pechino) erano all’ordine del giorno. Xi ha zittito tutti, ha preso il potere e ha lanciato lo slogan del «sogno cinese», subito ripreso dalla grancassa mediatica nazionale.

Cosa è il «sogno cinese»? Alle prime apparizioni dello slogan pareva un contenitore ancora vuoto, privo di quei contenuti capaci di definirlo in termini politici. Ora, dopo quasi un anno dalla conquista del potere di Xi Jinping, si possono cominciare a mettere alcuni contenuti all’interno della scatola: intanto un nazionalismo denso, che gioca sugli storici «ganci» di Xi con l’esercito (e non a caso Xi Jinping, senza colpo ferire, è anche capo della Commissione militare cinese, in pratica ricopre il vertice di Stato, Partito ed Esercito).

Questa spinta sul nazionalismo ha rinverdito gli auspici di quei «neomaoisti» che del periodo precedente alle Riforme vogliono un recupero soprattutto dei valori nazionalisti, patriottici e unitari del Partito, più che istanze politiche socialiste, fermo restando l’importanza dello stato (ovvero il Partito) nella gestione dell’economia nazionale. Xi Jinping, attraverso riferimenti al periodo maoista, e documenti come il numero 9, ha provato a recuperare l’ala sinistra del Partito, dopo un periodo traumatico in cui i liberali sembravano avere appreso il sopravvento.

Chi pensava a una Cina in grado di procedere a riforme politiche «occidentali», si sbagliava di grosso. L’intento è sempre stato un desiderio della politica e dei media occidentali, più che un auspicio espresso da qualche funzionario cinese del Partito Comunista. Il rallentamento della crescita e le tensioni sociali, la necessità di riconvertire la propria economia, hanno fatto tornare in auge quei funzionari che attraverso l’ideologia che si riallaccia alla storia del PCC (che cerca una sua continuità da sempre, tanto che i cinesi parlano di quinta generazione dei leader, collegandola direttamente all’origine, ovvero la prima, quella di Mao) difendono soprattutto posizioni economiche: le grandi aziende di stato ad esempio.

Non è un caso se – insieme ai documenti interni – al momento la Cina stia conducendo una feroce battaglia contro le aziende straniere. Il Partito sente la necessità di stringere le maglie in una battaglia che forse è anti storica – la società cinese sembra andare in tutt’altra direzione, da un punto di vista degli interessi, perché è errato leggere nella società cinese un afflato democratico di stampo occidentale – ma che sa cogliere la natura specificamente «anti occidentale» della popolazione cinese.

Il fatto che questo documento sia uscito sul New York Times, però getta ombre soprattutto sulla presunta unità del Partito. Potrebbe infatti darsi per scontato che la consegna del report al quotidiano Usa sia stata effettuata da qualche funzionario che non approva la virata nazionalista e statalista, in termini economici, di Xi Jinping. Ma del resto, come mi spiegava l’economista Fred Engst, il passaggio a riforme liberali in termini economici, prime fra tutte lo smantellamento delle aziende di stato, «incontrerà la forte resistenza di quasi tutto il Partito».

Con buona pace di quei magazine e quei funzionari che da mesi spingono per le riforme: quando si insediò il nuovo ufficio centrale del Politburo, tutti gli analisti dissero che si trattava di un organo «conservatore». I più liberali, infatti, erano stati lasciati fuori, dall’asse Jiang Zemin (che non a caso recentemente ha lodato Xi Jinping, definendolo l’uomo forte che serve alla Cina) Xi Jinping: un segnale che le tante riforme invocate anche dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, non avrebbero trovato un terreno fertile.

Le banche e le aziende di stato, infatti, che dovrebbero essere il cuore della ristrutturazione economica del paese, sono in mano alle famiglie che controllano il Partito: da sempre gli intrecci solidaristici e familiari all’interno del Partito Comunista (come ha testimoniato il New York Times proprio con l’inchiesta sul patrimonio finanziario di Wen Jiabao) dominano la politica sociale ed economica in Cina.

Il problema semmai, e la fuoriuscita di questi documenti lo testimonia, è leggere quanto accade all’interno del misterioso Partito Comunista. L’uscita del Documento Numero 9 lascerebbe presupporre quindi che la battaglia all’interno del Partito non sia sopita: alle porte c’è il tradizionale incontro del Comitato Centrale di ottobre, nel quale si discuterà di riforme e di tredicesimo piano quinquennale. La tradizionale danza interna del Partito Comunista, sembra dunque essere ricominciata.

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