Promossa, ma con qualche debito a settembre. Ancora una volta la Cina passato il giudizio del Consiglio per i diritti umani dell’Onu. Con l’appoggio decisivo del cosiddetto Sud Globale, quel centinaio di paesi sparsi tra Asia, Oceania, Africa e America Latina, che con la Repubblica popolare condivide la necessità di aggiornare i criteri con cui le organizzazioni internazionali (controllate ancora in buona parte dall’occidente) valutano la condotta dei paesi membri.
Che la Cina sia in buona compagnia, è diventato ancora più chiaro lo scorso 23 gennaio, quando a Ginevra si è tenuta la revisione periodica universale dell’Onu (UPR), meccanismo attraverso il quale, ogni cinque anni, i 193 Stati membri dell’Onu esaminano a vicenda lo stato dei diritti umani. Ogni paese ha 45 secondi per formulare la propria valutazione, che si basa sulle informazioni contenute in un rapporto compilato dal paese sottoposto a revisione, oltre ai resoconti di esperti indipendenti e società civile. Per la Cina è stato il primo “esame” dal 2018. Il primo dalla pubblicazione del controverso report dell’Onu sullo Xinjiang che nell’agosto 2022 ha certificato “gravi violazioni dei diritti umani” contro le minoranze musulmane. Il primo dalla repressione delle proteste pro-democrazia a Hong Kong e dall’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale. Nonché il primo dalla condanna dell’avvocato Xu Zhiyong a 14 anni di carcere per “sovversione dei poteri dello stato”. Insomma, negli anni intercorsi dalla precedente UPR lo stato dei diritti umani in Cina difficilmente può dirsi migliorato. Almeno non nel senso stretto del termine.
Come prevedibile, il giudizio dell’Occidente è stato severo. Il Regno Unito ha chiesto a Pechino di “cessare la persecuzione e la detenzione arbitraria di uiguri e tibetani e di consentire un’autentica libertà di religione, di credo e di espressione culturale senza timore di sorveglianza, tortura, lavoro forzato o violenza sessuale”. Il governo di Rishi Sunak ha inoltre raccomandato l’abrogazione della legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong, oltre ad aver chiesto espressamente la sospensione del procedimento giudiziario a carico di Jimmy Lai, il magnate della stampa pro-democrazia dell’ex colonia britannica. Sullo stesso spartito gli Stati Uniti. Per Washington la Cina dovrebbe “liberare tutti gli individui detenuti arbitrariamente” e cessare l’attuazione di “politiche di assimilazione forzata, compresi i collegi in Tibet e Xinjiang”.
La menzione del Tibet è particolarmente rilevante. Negli ultimi anni, la visibilità internazionale del Xinjiang e di Hong Kong è parsa penalizzare la causa tibetana. Sebbene le autoimmolazioni dei monaci siano un fenomeno del passato, sul “Tetto del mondo” la popolazione continua a subire restrizioni nell’esercizio della libertà religiosa, ufficialmente tutelata dalla costituzione cinese. Durante le consultazioni del 23 gennaio venti paesi hanno avanzato suggerimenti per migliorare la tutela dei diritti umani in Tibet, esattamente lo stesso numero ad avere fatto lo stesso riguardo alla situazione nello Xinjiang.
Salvo poche eccezioni, tuttavia, le voci critiche sono rimaste circoscritte in Occidente, laddove nel Sud Globale – persino nei paesi islamici – la repressione delle minoranze etniche cinesi viene tollerata silenziosamente. Un po’ per non attirare l’attenzione sulle proprie manchevolezze, un po’ per semplice opportunismo: ben 120 Stati sono intervenuti per sottolineare i risultati positivi ottenuti da Pechino, dalla lotta alla povertà al miglioramento della qualità della vita della popolazione.
La pacca sulla spalla è arrivata perlopiù da paesi piccoli o economicamente dipendenti dalla Cina. L’Etiopia – criticata dall’occidente per la gestione del conflitto nel Tigray – ha lodato l’amministrazione Xi Jinping “per aver migliorato il sistema del contenzioso penale”, mentre l’Iran ha apprezzato i “programmi economici implementati dal governo cinese con l’obiettivo di promuovere i diritti sociali, culturali ed economici”. Il Bhutan, sempre più vicino a Pechino per controbilanciare l’influenza dell’India, ha constatato “progressi significativi nella riduzione della povertà”.
Il fatto è che, come la Repubblica popolare, sono molti i paesi in via di sviluppo a contestare la definizione restrittiva dell’occidente, secondo cui i diritti umani sono emanazione dei valori democratici. Sono invece sempre di più gli Stati a includere nel significato del termine la capacità di un governo di assicurare benessere per i propri cittadini.
Va detto che non tutti lo fanno per libera scelta. Secondo testimonianze raccolte dalla Reuters nei giorni precedenti alla revisione, Pechino avrebbe fatto pressione per convincere i paesi amici a rilasciare una valutazione positiva. Richiesta spesso accettata per non compromettere le relazioni con la seconda economia mondiale.
Per questo motivo e non solo, il ruolo della UPR risulta sempre più marginale. Durante la precedente revisione Pechino ha ricevuto 346 raccomandazioni da 120 paesi e ne ha accettate 284. Secondo il governo cinese, un discreto numero risulta ufficialmente “già implementato”, benché – come dicevamo – lo stato dei diritti umani nel paese non può essere considerato complessivamente in miglioramento.
D’altronde, è difficile condurre una revisione efficace sulla base di informazioni poco credibili: il report presentato da Pechino all’Onu non compare nessuna delle gravi violazioni dei diritti umani sollevate a livello internazionale, dai crimini contro l’umanità alla tortura fino alla censura pervasiva. Piuttosto al governo vengono attribuiti “risultati storici nella causa dei diritti umani in Cina”. Gli unici problemi ammessi da Pechino nel documento sono gli “ostacoli… alla promozione di uno sviluppo di alta qualità” e “ la nostra capacità di innovare nella scienza e nella tecnologia non è ancora forte”.
L’altra grande discriminante è rappresentata dall’emarginazione della società civile. Mentre in occidente ambientalisti, femministe, avvocati supportano regolarmente le autorità nella stesura dei rapporti da presentare all’UPR, in Cina gli attivisti vengono considerati un pericolo per la stabilità e, pertanto, messi a tacere. Caso eloquente è quello di Cao Shunli, arrestata nel 2013 proprio mentre cercava di raggiungere la sede Onu di Ginevra; la donna è morta nelle mani della polizia nel marzo 2014.
Per compensare l’assenza di un contributo grassroots, Pechino si avvale di numerose GONGO (Government-Organized Non-Governmental Organizations), finte ONG controllate dallo Stato. China Human Right Watch ne ha adocchiate diverse durante l’ultimo incontro a Ginevra. Al contrario, secondo Stephanie Nebehay del Geneva Observer, la missione diplomatica di Pechino ha chiesto espressamente agli organizzatori dell’evento di precludere l’accesso ai “separatisti anti-cinesi”.
Anche in questo contesto edulcorato, non sono mancate proposte e velati ammonimenti dagli amici del Sud Globale. In totale, 31 paesi – compresa la Bulgaria – hanno rivolto l’attenzione ai diritti delle donne cinesi; tasto dolente per un paese guidato da una leadership tutta al maschile. Colombia e Argentina si sono invece espresse sull’impiego pervasivo della pena capitale in Cina, chiedendone l’abolizione. Con tatto – e coinvolgendo gli intermediari giusti – sarebbe quindi forse possibile trovare i numeri per discutere temi spinosi.
A quanto pare nei palazzi del potere di piazza Tiananmen non sembra esserci grande interesse a provarci. Almeno per ora. Rispondendo alle raccomandazioni avanzate in sede UPR, l’ambasciatore cinese alle Nazioni Unite, Chen Xu, ha affermato che le preoccupazioni della comunità internazionale sono causate da “incomprensioni o disinformazione”. Ergo, difficilmente Pechino rifletterà su consigli che reputa il frutto di “pregiudizi ideologici, voci e bugie infondate”.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.