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Dietro i Xinjiang Police Files

In Cina, Economia, Politica e Società by Alessandra Colarizi

Gli ultimi leaks sul Xinjiang – che comprendono discorsi ufficiali, documenti riservati e immagini –  sebbene facciano ulteriore luce sul sistema della “rieducazione”, lasciano molte domande ancora senza risposta. La nostra analisi in partnership con Gariwo Onlus.

Pile di discorsi classificati, documenti riservati, e migliaia di immagini di detenuti uiguri. Sono i Xinjiang Police Files, gli ultimi leaks che attestano la portata della cosiddetta “rieducazione” di massa, il sistema detenzioni extragiudiziali a cui sono state sottoposte le minoranze etniche islamiche nell’omonima regione autonoma cinese al confine con l’Asia centrale. Il materiale – autenticato nell’arco di vari mesi – è stato hackerato dai server della polizia locale e consegnato da una fonte non identificata ad Adrian Zenz, antropologo della Victims of Communism Memorial Foundation. I documenti sono poi stati condivisi con i media internazionali e interpretati da Zenz in un paper pubblicato sul Journal of the European Association for Chinese Studies. 

Non è la prima fuga di notizie dal Xinjiang. I Police Files vanno infatti a completare i Xinjiang Papers, divulgati dal New York Times nel 2019, e i numerosi studi sul tema effettuati negli ultimi anni da ricercatori con il sussidio di società di analisi e rilevamenti satellitari. L’importanza degli ultimi leakes sta innanzitutto nella conferma del coinvolgimento delle autorità centrali: dai vari discorsi emerge che il presidente Xi Jinping in persona ha approvato le misure adottate – dalla sorveglianza di massa ai campi per la rieducazione – con l’ordine di combattere “senza pietà” “il terrorismo, le infiltrazioni e il separatismo”. E’ interessante notare come nei Police Files la stabilizzazione del Xinjiang sia direttamente associata al raggiungimento dei “due centenari”; quindi a obiettivi di sviluppo nazionale con un forte significato politico e direttamente collegati alla legittimità di Xi.

Altro dato da considerare sono i numeri elevatissimi della “rieducazione”: secondo quanto dichiarato nel giugno 2018 da Zhao Kezhi, ministro della Sicurezza Pubblica, all’epoca erano circa 4 milioni le persone “gravemente influenzate” dall’estremismo religioso. Stime che avvalorano precedenti studi (ritenuti credibili dall’Onu) che parlano di almeno 1 milione di internati e centinaia di strutture detentive. Celebrando il “successo” della campagna, nel suo discorso Zhao fa riferimento ben quattro volte a un “gran numero di detenzioni in eccedenza rispetto alle capacità di accoglienza”. Questo è vero soprattutto nel Xinjiang meridionale, dove gli uiguri rappresentano ancora la maggioranza della popolazione rispetto agli han. Secondo documenti ripresi pochi giorni fa da AP, la contea di Shufu/Konasheher – dove oltre 10.000 persone sono state arrestate per reati che spaziano dal terrorismo a vaghe imputazioni tradizionalmente utilizzate contro i dissidenti politici – è il posto con il più alto tasso di incarcerazioni al mondo: una persona su 25.

Che si tratti, appunto, di strutture detentive e non di “scuole” lo ribadiscono le prove fotografiche contenute nei Police Files: i reclusi, talvolta in lacrime, talvolta ammanettati, sono affiancati da guardie armate. Un elemento che già di per sé sembra contestare la versione ufficiale dei campi per la “rieducazione” come semplici centri di formazione.  Le motivazioni delle detenzioni – non sempre chiare – includono comportamenti sospetti, come non bere alcol, aver visitato “paesi sensibili” o aver usato troppo poco il cellulare (che in Xinjiang è sottoposto a rigorosi controlli). Talvolta vengono citati “crimini” commessi decenni prima. Lo stesso Zhao non associa espressamente le detenzioni a una forma di resistenza violenta contro lo Stato. Piuttosto, motiva la “rieducazione” in termini di identità culturale e religiosa. Spicca soprattutto la ripetuta menzione al  “pan-turchismo” e alle presunte istanze secessioniste delle minoranze turcofone che popolano la regione autonoma. E se nei primi discorsi si parla chiaramente di “nemici”, col passare del tempo l’attenzione delle autorità si sposta più in generale verso “le persone inaffidabili”. Questo spiega forse perché nel database della polizia ci sono molte donne tra i 15 e i 73 anni.

Protocolli interni fanno inoltre chiarezza sulle ferree misure di sicurezza adottate all’interno dei centri: si parla di agenti armati in tutte le strutture, mitragliatrici e fucili di precisione posizionati nelle torri di guardia e l’ordine di sparare con licenza di uccidere contro chi cerca di scappare. Misure di controllo sono state adottate anche per chi è stato lasciato nelle proprie abitazioni, ma viene considerato un elemento a rischio. I file attestano inoltre una stretta relazione tra il sistema dei campi e quello delle incarcerazioni formali per “terrorismo”. Dalle testimonianze degli ex detenuti era già emerso in passato che in diversi casi il soggiorno nei centri sia stato inframezzato da periodi di reclusione dietro le sbarre dopo processi farsa. 

I limiti dei Xinjiang Police Files

Non compaiono invece elementi sufficienti a comprovare gli abusi raccontati dagli ex detenuti: stupri, sterilizzazioni forzate, e varie forme di tortura. Anzi. Contrariamente a quanto denunciato,  le direttive ufficiali chiedono trattamento “umano”, che venga servito “cibo a sufficienza”, prestato soccorso medico adeguato, e che siano rispettate le abitudini delle minoranze etniche. Cosa succede nella fase applicativa resta quindi non verificabile, soprattutto dopo l’introduzione delle misure anti-Covid nella regione già strettamente sorvegliata. Va detto inoltre che, forse a causa dell’irrigidimento degli standard crittografici, i Police Files coprono solo il periodo 2017-2018. Ergo, i leaks non aiutano a chiarire cosa stia avvenendo ora, in questo momento, nel Xinjiang. Ma collocano per la prima volta il sistema della “rieducazione” all’interno di un piano quinquennale: la roadmap comincia nel 2017 con la nomina di Chen Quanguo alla guida del Partito locale e l’obiettivo di “stabilizzare” la regione, prosegue negli anni successivi per “consolidare” quanto ottenuto, fino a raggiungere nel 2021 “una stabilità generale”. Potrebbe quindi non essere casuale la sostituzione di Chen con Ma Xingrui, ex governatore della dinamica provincia del Guangdong, avvenuta proprio alla fine dello scorso anno. Segno forse che, dopo i metodi coercitivi del primo quinquennio, in futuro si cercherà di controllare le minoranze musulmane puntando – non solo ma di più – sullo sviluppo economico. In uno dei suoi discorsi persino Chen ha ammesso che, dopo le proteste di Urumqi del 2009, la “rieducazione” ha mostrato scarsi risultati nel prevenire altri episodi violenti. L’impressione dai numerosi leaks è infatti che, anche all’interno della nomenklatura, non ci sia completa convergenza d’opinione sulla validità delle misure adottate. 

Siamo di fronte a un cambio di strategia? Difficile a dirsi. Per ora, sembra che il sistema della “rieducazione” stia semplicemente cambiando forma: mentre, secondo le autorità, tutte le “scuole” sono state chiuse nel 2019, i parenti dei reclusi testimoniano il trasferimento dei propri cari dai campi verso le prigioni e le fabbriche. Queste ultime si sono rivelate centrali nel processo di “trasformazione attraverso il lavoro” con cui Pechino dice di voler reintrodurre in società gli elementi “radicalizzati”. Un punto di per sé già controverso perché contraddice l’intenzione – annunciata da Xi Jinping nel 2013 – di  abolire il laojiao, il sistema introdotto da Mao per correggere i controrivoluzionari attraverso il lavoro forzato e impiegato per decenni contro dissidenti. Secondo Zenz, ci sono elementi per ritenere che i campi dello Xinjiang siano stati modellati proprio sull’esperienza del laojiao così come è stato applicato nei primi anni 2000 per “riabilitare” i praticanti della Falun Gong. 

 

La visita di Bachelet e la risposta internazionale

La pubblicazione dei Police Files ha coinciso con l’attesa missione di Michelle Bachelet nella regione autonoma, la prima dell’Alto Commissariato per i diritti umani dell’Onu in Cina dal 2005. Una visita – non “un’indagine” – che non solo ha disatteso le aspettative di chi chiedeva trasparenza sul Xinjiang. Ha anche permesso a Pechino di dare visibilità internazionale a una propria interpretazione di diritti umani basata sul progresso economico anziché sul rispetto dei valori universali. 

Pur ammettendo di non essere stata “in grado di valutare l’intera portata dei centri di istruzione e formazione professionale”, Bachelet sostiene di aver avuto “la possibilità di tenere discussioni di alto livello” e di aver “ individuato aree in cui sviluppare un dialogo per il futuro”. Qualcosa in più potrebbe emergere dal rapporto che l’Alta Commissaria si è impegnata a rilasciare nei prossimi giorni. Per ora predomina il disappunto per le molte domande rimaste senza risposta. Non solo. Associando il sistema della “rieducazione” alla lotta contro il terrorismo, Bachelet ha finito per sminuire la dimensione politica della questione xinjianese. Perché, se è vero che gli ultimi attacchi di sospetta matrice uigura in Cina hanno coinciso con gli attentati di Parigi, è altrettanto innegabile che la stretta sul Xinjiang vada ascritta a una transizione generalizzata verso le cosiddette “politiche etniche di seconda generazione”: con l’arrivo di Xi Jinping è tornato in voga il concetto di zhonghua minzu che, mutuando l’idea di “nazione cinese” di Sun Yat-sen, identifica il popolo cinese come un’unica soggettività politica erodendo la rappresentanza dei gruppi minoritari. Considerare il Xinjiang un problema puramente di sicurezza nazionale non è quindi solo riduttivo. E’ anche fuorviante.

Il Xinjiang è infatti sempre più un dilemma con diramazioni globali. L’utilizzo della forza lavoro uigura nell’industria tessile, così come nel fotovoltaico, rappresenta una spina nel fianco per le multinazionali occidentali. Soprattutto da quando Stati uniti e Unione europea hanno anteposto la tutela dei diritti umani nella regione autonoma alla normalizzazione dei rapporti con la Cina. Dopo le sanzioni incrociate che hanno colpito funzionari cinesi e accademici europei, nel 2021 Bruxelles ha fatto retromarcia sullo storico accordo di investimento bilaterale siglato con Pechino dopo otto anni di negoziati. Con la speranza di ammorbidire le autorità comunitarie, recentemente il governo cinese ha provveduto a ratificare due convenzioni dell’ILO sul lavoro forzato, soddisfacendo una delle precondizioni imposte da Bruxelles per scongelare il trattato. Ma il gesto distensivo per ora non è bastato a riannodare il dialogo sino-europeo.

Su ispirazione americana, all’interno del parlamento di Strasburgo si levano nuove voci a favore di misure più drastiche per responsabilizzare le aziende europee con interessi economici nel Xinjiang. Dopo il pensionamento di Merkel, anche la Germania ha assunto una postura più intransigente in materia di diritti umani. In Italia la questione uigura si è fatta spazio nel dibattito pubblico tanto da spingere alcuni brand – come la catena di abbigliamento Ovs – a promuovere campagne di sensibilizzazione contro il lavoro forzato. Nel maggio 2021, maggioranza e opposizione, hanno raggiunto un’intesa in Commissione Esteri della Camera per chiedere al governo ad “esprimere, in tutte le sedi internazionali competenti, la più ferma condanna dell’Italia per ogni genere di violazione dei diritti umani praticata da uno Stato nei confronti degli appartenenti ad una minoranza etnica o religiosa”.

Finora, tuttavia, poco o nulla è stato fatto per prestare aiuto ai pochi uiguri fuggiti nella penisola. Esemplare è la storia di Mihiriban Kader – raccontata da l’Espresso – che arrivata in Italia nel 2016 da due anni sta cercando invano il supporto delle autorità italiane per far scappare i propri figli rimasti in Cina. 

Di Alessandra Colarizi

[Pubblicato su Gariwo]