Nel traffico caotico di una metropoli cinese all’ora di punta, la soluzione più comoda è a portata di smartphone. Basta un gesto per chiamare, pagare e attendere il proprio autista personale. In Cina non si chiama un taxi. Non si chiama un Uber. Si chiama un Didi.
Ma a partire da domenica 4 luglio, l’applicazione di ride-hailing più famosa della Repubblica Popolare non compare più negli stores dei principali cellulari cinesi. A congelarla, l’inarrestabile Cyberspace Administration of China, l’apparato per la sicurezza informatica cinese. La settimana scorsa Didi Global aveva ricevuto una quotazione iniziale a Wall Street tra le più attraenti degli ultimi tempi. 4.4 miliardi di dollari di Ipo, nella più grande quotazione cinese sulla borsa americana dopo i 21.8 miliardi di Alibaba nel 2014. Pechino non ha apprezzato e ha lanciato un’indagine sull’azienda sotto la guida meticolosa della Cyberspace Administration.
Dopo solo due giorni di analisi è arrivata l’esclusione temporanea dell’app dagli store digitali. L’accusa è di violazione delle normative sulla sicurezza dei dati. Il pretesto è ancora una volta quello della sicurezza nazionale. Non sono state fornite specifiche in merito ma la piattaforma è stata invitata a «correggere i problemi esistenti» secondo gli standard nazionali. Non potrà registrare nuovi utenti fino a che sarà sotto inchiesta e rischia la chiusura in caso di mancata ottemperanza.
Si tratta dell’ennesima mossa nel giro di vite del governo centrale nei confronti delle big tech. Una volta campioni nazionali da supportare e su cui investire, utili per rafforzare l’idea a livello globale di una Cina forte e promotrice del progresso tecnologico, oggi Pechino stringe il guinzaglio e cerca di tenere in casa i suoi mastini del tecnologico. Per farlo sta impiegando i sempre più numerosi strumenti normativi in suo possesso.
Non solo multe antitrust, come quella salatissima di 2.8 miliardi pagata da Alibaba, ma nuove regolamentazioni a cui tutti i giganti del digitale dovranno attenersi come la neonata legge sulla sicurezza dei dati. Così il Partito si riafferma come unico sovrintendente della crescita dell’ecosistema digitale nazionale, e guarda con gelosia ai dati dei 550 milioni di utenti di Didi.
A nulla è servita la fedeltà di Cheng Wei, il Ceo e fondatore di Didi Chuxing, al Pcc. Rappresentante esemplare del «sogno cinese», aveva cominciato la sua carriera come dirigente di una catena di centri massaggi per i piedi, per poi scalare fino alla cima dell’iper competitivo mondo dell’high-tech cinese. Nei suoi discorsi pubblici, dalle forti tinte nazionaliste, un’innegabile gratitudine per la madrepatria e riferimenti storico-militari che inneggiano alla grandezza della Cina. Ma nel piano del Partito per il futuro dell’economia digitale, nessuno è al riparo e non c’è spazio per fraintendimenti: per rimanere un campione nazionale, bisogna scegliere la Repubblica Popolare. Sempre.
A seguito delle indagini e del congelamento dell’app, l’azienda ha dichiarato «massima collaborazione» e ha ringraziato «in modo sincero le autorità per aver guidato Didi nell’analisi dei rischi». Niente nuovi utenti per il momento ma per chi ha già scaricato l’app i servizi proseguiranno normalmente. Rimane, però, l’evidente calo in borsa subito dopo l’intervento del governo.
Didi era salita del 20% dopo la sua succulenta quotazione, per poi abbassarsi del 10% all’annuncio dell’indagine della Cyberspace Administration. Con lei, soffrono anche Boss Zhipin, Yunmanman e Huochebang, le ultime aziende tecnologiche cinesi a essere state messe sotto indagine per le loro ambizioni sul mercato internazionale.
[Pubblicato su il manifesto]Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.