Venerdì 5 novembre China Files e Istituto Confucio hanno organizzato un webinar sul tema delle supply chain in Cina. In questo articolo abbiamo raccolto gli spunti più interessanti dell’intervento del professore Andrea Appolloni, docente ed economista dell’Università Tor Vergata. Il mini-dizionario è prodotto da Chiara Bertulessi, assegnista di ricerca dell’Università degli Studi di Milano
Nell’era del Covid19 le supply chain sono diventate un tema di attualità sempre più importante. Ma partiamo dalle basi: che cosa comportano le filiere produttive e perché oggi si parla di crisi relativa anche (e soprattutto) alla Cina?
- Le supply chain sono il modo in cui un bene parte come materia prima e raggiunge il mercato finale su cui sarà venduto. Si tratta di operazioni complesse, che coinvolgono oramai ogni nazione e che determinano prezzi, disponibilità e accesso a questi beni.
- La Cina è la fabbrica del mondo. Lo è già da decenni. E anche se oggi Pechino punta ad alzare il livello e la complessità della propria produzione, ci vuole molto tempo prima che i flussi di merci si adattino a nuove realtà.
- La crisi provocata dalla pandemia ha per un attimo arrestato queste transazioni. Il fatto che la Cina sia stato uno dei primi paesi a uscirne non ha significato un ritorno alla normalità, anzi. La maggior parte delle attività nei paesi che acquistano o hanno portato le proprie produzioni in Cina si è trovata in difficoltà: da un lato la domanda per alcuni beni è improvvisamente calata, dall’altro (come nel caso di computer e telefoni) è aumentata più di quanto la filiera fosse in grado di fornire.
Una tematica sempre più importante è quella della sostenibilità. Come fa la Cina a rendere le proprie filiere “sostenibili”?
- Esistono due facce della sostenibilità nel contesto della supply chain (e in generale nei processi produttivi): ambientale, sociale ed economica.
- In Cina è molto forte la tematica della sostenibilità sociale, che da anni Pechino cerca di applicare all’interno delle filiere. In pratica questo si traduce in leggi per la tutela dei lavoratori, e per evitare che si creino degli sbilanciamenti lungo la catena (troppo lavoro o niente lavoro).
- La sostenibilità ambientale nelle supply chain legate alla Cina arriva soprattutto dai committenti in Europa e Stati Uniti. Le leggi in fatto di impatto ambientale dei prodotti sul mercato sono sempre più stringenti e per molte aziende è ormai imperativo dichiarare un certo grado di aderenza a scelte e pratiche sostenibili. A volte si tratta anche di andare incontro alle esigenze dei consumatori, ma anche adattarsi alle nuove leggi nazionali. Infine, i grandi accordi internazionali chiedono di ridurre le emissioni e l’impatto ambientale delle attività umane, e anche la Cina ha preso parte a queste iniziative.
- Un fattore fondamentale nelle supply chain è quello della sostenibilità economica. Oggi ci rendiamo sempre più conto che può essere molto rischioso portare produzioni importanti e essenziali lontane dal mercato di riferimento (le cosiddette delocalizzazioni). Un tempo si delocalizzava in Cina per ragioni di costi dell’energia, della manodopera o delle materie prime: adesso il costo della vita è aumentato, e Pechino sta cercando di ridurre la dipendenza dalle esportazioni.
Come sta cambiando l’economia cinese?
- Gli ultimi mesi sono stati cruciali e abbiamo visto quale direzione Pechino vuole dare alla propria economia. Più controllo dei grandi attori privati, maggiore attenzione al mercato interno e meno dipendenza dalle dinamiche internazionali. Questo è stato utile per tenere monitorati gli squilibri nella supply chain, anche se spesso sono inevitabili. La crisi energetica è uno di questi casi, anche se Pechino ha cercato di non penalizzare i cittadini “deviando” parte di questi tagli all’energia elettrica verso le grandi industrie.
- C’è maggiore attenzione allo sviluppo economico “di qualità”. Paradossalmente la Cina è l’unico paese che, uscito presto dalla pandemia, ha ripreso a crescere. Ma si tratta di una crescita monitorata e “contenuta” rispetto alle cifre di qualche anno fa. Questo può far pensare a un approccio programmatico, più cauto verso la crescita “illimitata” fatta solo di numeri. Il tutto riguarda la campagna lanciata dal presidente Xi Jinping sulla “prosperità comune”
- La Cina sta cercando di portarsi verso livelli più alti di produzione e servizi. Si investe di più in tecnologie precise, essenziali, come lo dimostra la crisi dei microchip. Pechino vuole evitare colli di bottiglia nei settori tecnologici più avanzati.
Infine, la guerra commerciale ha prodotto a sua volta degli effetti sulla supply chain. Come hanno influito le scelte dell’amministrazione Trump sulla salute dei traffici tra Cina e Stati Uniti?
- La guerra commerciale è stata una scelta puramente politica. Ha radici in un modo di vedere le relazioni economiche come uno strumento che può favorire o penalizzare l’altro, e Washington ha agito in questo senso. In poche parole la guerra commerciale include l’introduzione di dazi doganali su alcuni beni chiave, e quindi una maggiore tassazione che alza il prezzo del prodotto: questo ha quindi reso alcuni beni cinesi molto meno competitivi sul mercato Usa, e quindi minori guadagni per le aziende cinesi.
- La Cina ha sentito l’urgenza di rendersi autonoma anche grazie alle dinamiche scatenate dalla guerra commerciale, e cerca di trovare realtà alternative dove investire. Allo stesso modo gli Stati Uniti, anche l’attuale presidente Joe Biden, cercano di riportare negli Usa alcune produzioni. Ma è un processo complesso, che va oltre la promessa agli elettori di riportare il lavoro in America.
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.