La rapida espansione delle scuole internazionali in Cina risponde a una duplice esigenza delle famiglie con disponibilità economica: garantire un’istruzione di qualità superiore ai propri figli, ma anche proteggerli da un sistema scolastico ultra-competitivo. Il nuovo appuntamento della rubrica “Dialoghi: Confucio e China Files”, curata in collaborazione con Istituto Confucio di Milano
42 mila dollari. È la cifra che alcune famiglie cinesi sono disposte a pagare annualmente per permettere ai figli di frequentare le scuole internazionali di alto livello di Shanghai: in valuta cinese corrispondono a 300 mila yuan, quasi dieci volte il reddito annuale di un cittadino sulla trentina della megalopoli. Scuole di questo genere offrono un sistema educativo bilingue e classi meno numerose, oltre a un approccio del tutto diverso rispetto a quello cinese che impone memorizzazione, test standardizzati e una tonnellata di compiti a casa.
L’International Schools Search riporta la presenza di oltre 500 “International School” in Cina, la maggior parte delle quali sono concentrate a Shanghai e a Pechino. Le tiger mum della Repubblica popolare pagano per preparare la prole sin dalla scuola dell’infanzia e assicurare loro l’accesso a università prestigiose, sia in patria che all’estero. Secondo un’indagine condotta nel 2022 da China Education Online (zhongguo jiaoyu zaixian, 中国教育在线), piattaforma che offre servizi informativi per l’istruzione, dal 2000 al 2019 il numero degli studenti cinesi all’estero è aumentato di quasi 18 volte.
La tendenza, favorita dal costante aumento della ricchezza delle famiglie dai primi anni Duemila, riflette anche la generale espansione e il miglioramento degli istituti scolastici del paese. Ad oggi la Cina vanta il più grande bacino al mondo di persone coinvolte nei cicli universitari. Ma, come abbiamo scritto in una precedente puntata di Dialoghi, il rapido sviluppo dell’istruzione superiore ha prodotto un’offerta eccessiva di laureati.
Negli ultimi anni il mercato del lavoro della Repubblica popolare soffre l’iper-professionalizzazione: a un grande bacino di giovani lavoratori qualificati corrisponde un numero insufficiente di posizioni di lavoro che possano assorbirli. Lo dimostra l’andamento del tasso di disoccupazione giovanile per i residenti urbani della fascia di età 16-24 anni, che già nel 2019 aveva superato il 10%, per poi raddoppiare a inizio 2023 prima che le autorità decidessero di sospendere la pubblicazione dei dati.
Di fronte a un mercato del lavoro in continua contrazione, le famiglie con disponibilità economica sembrano voler rispondere a una duplice esigenza: da una parte, garantire ai propri figli un’istruzione di qualità superiore che possa permettere loro di emergere nel momento in cui toccherà confrontarsi con il mondo del lavoro; dall’altra, proteggerli dall’approccio ultra-competitivo del sistema scolastico cinese.
Ma spendere centinaia di migliaia di dollari di retta annuale, senza contare le costosissime attività extracurriculari (servono circa 40 mila yuan, ad esempio, per un corso di preparazione per l’esame TOEFL della durata di 21 giorni) è davvero una scelta sensata? È la domanda che si è posto Zheng Jiawen, consulente per soggiorni di studio all’estero, che in un articolo pubblicato lo scorso settembre su Sixth Tone ammette di aver “beneficiato dell’industrializzazione dell’istruzione cinese e del conseguente aumento delle ansie dei genitori”, ma anche che non può fare a meno di chiedersi se le enormi spese per garantire ai propri figli un’istruzione di altissimo livello abbiano vantaggi reali.
Nell’articolo l’autore racconta che ha perso il conto del numero di volte che ha parlato con genitori disposti a fare di tutto per garantire ai figli l’accesso a un ambiente di studio più “rilassato” e, in tal modo, proteggerli dalla pressione del gaokao. “A loro avviso”, scrive Zheng, “il sistema di esami di ammissione all’università costringe i ragazzi a diventare macchine da test e sopprime la loro creatività”.
Per poi scoprire, una volta sborsati i soldi, che le “International School” rispondono in tutto e per tutto ai meccanismi di competizione e ricerca dell’eccellenza: di base, spiega il consulente, “spesso si limitano a spostare la competizione dall’interno della classe all’esterno”. Le università straniere chiedono ai candidati una lunga serie di requisiti, che devono essere presentati mediante lettere di raccomandazione e di motivazione, saggi e, ovviamente, un ottimo curriculum. Tirando le somme, si tratta di sforzi ben maggiori di un solo esame accademico come il gaokao, seppur temutissimo.
Alla loro espansione è seguita quella di agenzie e istituti di formazione privata. Secondo le stime, ad oggi la Repubblica popolare conta circa 4 mila agenzie che offrono servizi a bambini e ragazzi che vogliono entrare nelle scuole internazionali. E la concorrenza è feroce: per accontentare i genitori e garantire che la prole passi con successo il processo di ammissione, le agenzie curano i curricula dei candidati nei minimi dettagli. A ciò si affianca una lunga serie di scuole di lingua e di formazione ad ampio raggio, pronte a plasmare studenti eccellenti, adatti a istituti di alto profilo.
Di fronte a un settore in caotica espansione e interessato da entrare di somme ingenti, Pechino non è rimasta a guardare. Nel 2021, dopo la stretta sul tutoring scolastico (che ha visto l’imposizione ai fornitori di corsi doposcuola già esistenti la registrazione come no profit), il governo cinese ha rivolto l’attenzione alle scuole internazionali, sia per il giro di soldi che le riguarda che per la scelta di un approccio occidentale agli studi.
A fine 2021 la britannica Harrow International School di Hainan ha comunicato ai genitori che gli studenti avrebbero dovuto seguire un programma di studi in cinese e che sarebbe stato inserito un test gestito dallo stato per diplomarsi. Un ingegnere del Guangdong aveva detto al South China Morning Post che l’intenzione iniziale era “di mandare nostra figlia di dieci anni in una scuola media internazionale il prossimo anno [..] per studiare la mentalità occidentale e sviluppare l’abilità del pensiero critico, per poi iscriversi in un’università di fama mondiale all’estero”. Ma le nuove direttive di Pechino lo hanno messo di fronte a un dilemma: iscriverla comunque, sapendo che l’introduzione di corsi in cinese avrebbe aumentato la pressione accademica, o mandarla a studiare all’estero, con conseguente allontanamento dalla famiglia e maggiori oneri finanziari per lui e sua moglie.
Marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea sul caso Jasic. Ha collaborato con Il Manifesto, Valigia Blu e altre testate occupandosi di gig economy, mobilitazione dal basso e attivismo politico. Per China Files cura la rubrica “Gig-ology”, che racconta della precarizzazione del lavoro nel contesto asiatico.