Il secondo posto alle Olimpiadi di Parigi ha confermato la forza del sistema sportivo cinese, ma Pechino non ha più bisogno dello sport per definirsi una superpotenza. La conseguenza è che stanno cambiando valori e obiettivi degli atleti, in linea con le idee delle nuove generazioni. “Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano. Clicca qui per le altre puntate
«Ora che hai vinto la medaglia d’oro, sei d’accordo nel dire che Qinwen è infine diventata “Queen Wen”?» – «Sì, sono completamente d’accordo. Un tempo sarei stata più modesta, ma credo davvero di essere andata oltre i miei limiti e di aver meritato il titolo». Questo scambio di battute tra un giornalista e la tennista cinese Zheng Qinwen, medaglia d’oro nel singolo femminile alle Olimpiadi (àoyùnhuì, 奥运会) di Parigi 2024, racchiude in poche parole una trasformazione in corso da tempo. È un cambiamento che forse parte dallo sport, ma che riguarda anche la società e la politica estera cinese.
Molti atleti cinesi hanno smesso di nascondersi dietro quel velo di modestia che tendeva a normalizzare successi epocali e record del mondo. Non sono più ossessionati dalla ricerca della perfezione, e nemmeno dalla vittoria a tutti i costi. Zheng è la prima tennista cinese a portarsi a casa un oro olimpico nel singolo, ha battuto in una semifinale durissima la numero 1 al mondo Iga Swiatek, poi ha dominato la finale contro Donna Wekic. È diventata “Regina Wen” e non ha timore a sottolinearlo: «Finalmente potrò dire alla mia famiglia e a mio padre che ho fatto la storia e in futuro spero che, se perderò, lui mi dirà solo di stare tranquilla e godermi il tennis», ha dichiarato in conferenza stampa.
L’enorme delegazione olimpica cinese inviata a Parigi (716 atleti) è uscita dalla Francia con 40 medaglie d’oro, al pari degli Stati Uniti, arrivando però seconda nel medagliere per il minor numero di argenti conquistati (44 a 27 per gli americani). Considerando che nella storia solo Stati Uniti e Unione Sovietica hanno vinto un medagliere olimpico fuori dai propri confini, questo “pareggio” è di fatto un risultato eccezionale. Diversi commentatori nazionalisti l’hanno definito «la prova del successo della modernizzazione cinese (zhōngguóshì xiàndàihuà, 中国式现代化)», affermando come il legame tra numero di abitanti e medaglie d’oro non sia così scontato, anzi. E in effetti ci sono paesi molto popolosi che faticano da sempre ai giochi: l’India, per esempio, a Parigi non ha vinto neanche una medaglia d’oro.
Dietro i successi olimpici e paralimpici della Cina (che ha stravinto per la sesta volta consecutiva una Paralimpiade estiva) c’è tanta pianificazione statale. A partire dagli ultimi decenni del Novecento Pechino ha iniziato a investire massicciamente nelle sue infrastrutture sportive, attirando nel paese i migliori allenatori al mondo e costruendo un sistema di scuole statali in grado di produrre costantemente atleti competitivi, anche a costo di un certo cinismo nello scartare ragazzi e ragazze al di sotto degli altissimi standard richiesti.
In un momento in cui la Repubblica popolare era ancora a tutti gli effetti un “paese in via di sviluppo”, l’obiettivo della leadership era mostrare al mondo la forza della Cina attraverso lo sport, scalando il medagliere olimpico. Il modo più semplice e rapido per farlo era puntare sugli sport di nicchia. Il governo ha focalizzato i suoi investimenti in discipline con un numero di atleti e un livello di competitività relativamente bassi, come i tuffi o il tiro a segno, arrivando alle Olimpiadi di Pechino 2008 al massimo della propria forza e vincendo il medagliere.
Per anni, in questo contesto di forte politicizzazione, ogni successo sportivo e ogni medaglia sono stati soprattutto una questione di orgoglio nazionale. Come ha scritto Amber Zhang nella newsletter Baiguan, gli atleti «non lottavano per loro stessi, ma per tutta la Cina», e dopo una vittoria non c’era tempo per i festeggiamenti. Il peso delle aspettative e il desiderio di ripetersi, per non deludere un paese intero, lasciavano spazio solo al lavoro. Oggi le cose sono cambiate, e in questo proprio Pechino 2008 ha fatto da spartiacque.
La vittoria alle Olimpiadi di casa ha lasciato intendere al mondo che – sportivamente e metaforicamente – gli Stati Uniti non erano più l’unica superpotenza esistente e che anche la Repubblica popolare avrebbe potuto ambire, presto o tardi, a un ruolo paritario rispetto a quello di Washington. È stato un primo passo simbolico, accompagnato dall’ascesa dell’economia cinese e dal rallentamento delle economie occidentali, colpite dalle crisi del 2008 e 2011. Diventando più ricca, la Cina ha sentito meno la necessità di usare lo sport come strumento di forza tanto che, ad esempio, a fare ironia sul bassissimo livello del calcio cinese ci ha pensato anche lo stesso presidente cinese Xi Jinping (come si può vedere in questo video dell’anno scorso).
L’ossessione politica per le vittorie sportive e per il medagliere olimpico è dunque scemata, e così è cambiato anche l’atteggiamento di atleti e tifosi nei confronti delle competizioni. Nel corso degli anni sempre più atleti hanno deciso di uscire dal sistema delle scuole sportive statali, cominciando ad allenarsi individualmente, seppur con costi maggiori, a spese della propria famiglia (eventualità praticamente impossibile prima del boom economico). La macchina sportiva cinese si è quindi ibridizzata, iniziando a produrre atleti sia dal settore statale che da quello privato. Una condizione che, oltre ad aver reso la Cina molto forte anche nelle discipline maggiori (come il tennis o il nuoto), ha trasformato il ruolo stesso degli sportivi.
Se l’orgoglio nazionale resta, la realizzazione del “sogno cinese” non è più l’unico scopo dei campioni cinesi dello sport. Da un po’ di tempo, come dimostrano le parole di Zheng Qinwen, è molto più marcata la componente di crescita e soddisfazione individuale per aver dato il massimo, a prescindere dal risultato. Si tratta di un cambiamento apprezzabile soprattutto nella generazione di atleti nati negli anni Duemila, cioè la generazione lingling hou (línglíng hòu, 零零后).
Questo passaggio a un approccio più rilassato nei confronti delle competizioni sportive ha reso gli sportivi anche più consapevoli delle loro capacità. I giovani atleti cinesi sono sicuri di loro stessi, spavaldi, a volte sfacciatamente sinceri. A incarnare più di tutti questa attitudine è forse Pan Zhanle, nuotatore ventenne medaglia d’oro a Parigi sia nei 100 stile libero che nella staffetta dei 4×100 misti. Accusato di doping insieme a diversi membri della squadra di nuoto cinese a seguito di un grosso scandalo, poi archiviato, ha risposto che «è un problema loro [dei nuotatori degli altri paesi] se non riescono a fare quello facciamo noi. Se noi possiamo, vuol dire che siamo forti».
In passato nessun atleta cinese si sarebbe mai posto in questo modo davanti alle telecamere. «Ci è sempre stato insegnato a essere modesti, a dire cose carine solo degli altri e a prepararci mentalmente al fatto che ci sarà sempre qualcuno più bravo di noi», ha scritto il giornalista cinese Robert Wu, «quindi sentire Pan parlare così è notevole». A dimostrazione di come sia in corso un processo di trasformazione della mentalità cinese, dice Wu, c’è poi il fatto che molti (soprattutto giovani) abbiano supportato il nuotatore, senza tacciarlo di arroganza o individualismo.
Anche il tifo (per quanto sempre molto nazionalista) sta diventando infatti più equilibrato e meno critico nei confronti degli atleti cinesi, compresi quelli che non ottengono grandi risultati. Piuttosto, come conseguenza della minor politicizzazione degli eventi sportivi e dei recenti problemi economici del paese, sono aumentate le polemiche attorno agli ingenti investimenti statali nello sport, così come è generalmente diminuito l’interesse dei cinesi verso Olimpiadi e Paralimpiadi.
Da ossessione nazionale, le competizioni sportive sono diventate una questione personale, “proprietà” degli atleti e al limite dei loro tifosi, che decidono autonomamente come affrontarle. È la Cina che cambia. Per capire come e in che direzione, serve guardare anche al significato che governo, atleti e società danno allo sport.
A cura di Francesco Mattogno