A dicembre la piattaforma di shopping online Temu ha fatto causa al brand di fast fashion Shein per “intimidazioni di stampo mafioso”, riaprendo una battaglia legale dopo neanche due mesi di tregua. “Dialoghi” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio di Milano.
Lo scorso ottobre, dopo quasi un intero anno trascorso a intentare reciproche cause legali, Temu e Shein hanno optato per una tregua. Gli avvocati delle due società cinesi di e-commerce hanno presentato dichiarazioni congiunte ai tribunali di Chicago e Boston chiedendo che le accuse fossero “archiviate senza pregiudizio”. Le dichiarazioni, secondo quanto riportato da Reuters, non contenevano ulteriori dettagli sulle motivazioni. Forti di una strategia nota come “dal produttore al consumatore”, che consente alle merci di raggiungere direttamente l’acquirente senza passaggi intermedi in magazzini di stoccaggio, le due piattaforme hanno conquistato in poco tempo una consistente fetta di mercato in Europa e Stati Uniti. Ma di fatto non si fanno concorrenza diretta: Shein si dedica al mondo del fashion mente l’altra app vende di tutto, dai giochi ai prodotti per la casa, dall’elettronica ai vestiti.
Eppure secondo Temu, il cui nome sta per sta per “Team Up, Price Down”, Shein minerebbe la sua sopravvivenza adottando tattiche “di stampo mafioso” con i fornitori. A metà dicembre la società con sede a Boston ha accusato il brand di fast fashion di utilizzare pratiche coercitive e intimidatorie contro gli stabilimenti produttivi concentrati per la maggior parte nell’area del Delta del Fiume delle Perle, l’hub economico e tecnologico che include metropoli come Shenzhen e Hong Kong.
Nel documento dell’azione legale le parole “supplier” e “suppliers” compaiono oltre 350 volte. Si legge che “il modello di business di Shein dipende dal controllo di queste fabbriche [..] piuttosto che affidarsi ai progetti e alla tecnologia di produzione interni di Shein”. Che il brand contasse su una fitta rete di aziende terze, a cui commissiona anche il design dei capi, era fatto noto: nel suo rapporto di sostenibilità Shein spiega che per migliorare l’esperienza di acquisto si punta a una “tecnologia di produzione on-demand per collegare i fornitori alla nostra agile catena di approvvigionamento”.
Ma Temu sostiene che il margine di azione dei fornitori sia limitato, che il processo tecnologico e di creazione della piattaforma sia nullo e che le fabbriche siano di fatto vincolate a produrre “copie di modelli di tendenza”. Più che un brand, conclude, Shein è “una macchina etichettatrice glorificata”. La società avrebbe bloccato l’accesso del nuovo arrivato al 70-80% dei fornitori di ultra-fast fashion, persino trattenendo fisicamente nei suoi uffici i rappresentanti delle aziende che riteneva vendessero prodotti a Temu, sequestrando loro i telefoni e obbligandoli a condividere informazioni commerciali e finanziarie senza autorizzazione.
Un carico di accuse non indifferente, che conclude un iter iniziato a dicembre 2022. All’epoca Shein aveva salutato il lancio di Temu negli Stati Uniti depositando una causa presso il tribunale del distretto settentrionale dell’Illinois, in cui sosteneva che la società avesse chiesto agli influencer assoldati nella sua strategia di marketing di fare commenti denigratori sul suo conto. A luglio dello scorso anno era toccato al nuovo sito di e-commerce, che aveva fatto ricorso alle leggi antritrust statunitensi e aveva accusato la società di fast fashion di creare contratti esclusivi con oltre 8 mila aziende produttrici di abbigliamento, che venivano costrette a “firmare giuramenti di fedeltà che certificano che non faranno affari con Temu”.
“Il teatro principale di questa guerra”, si legge in quella dichiarazione, è “il mercato statunitense”. Shein ha fatto il suo debutto nel lontano 2017, divenendo in poco tempo il brand di moda a buon mercato più popolare nel paese. A marzo di quest’anno è stata valutata circa 66 miliardi di dollari in un round di finanziamenti, più di società come H&M e Zara messe assieme. Il valore dell’IPO depositata in segreto alla borsa di New York a fine anno, in previsione di un lancio imminente, potrebbe addirittura raggiungere i 90 miliardi di dollari.
Resta da vedere se sulle sue ambizioni peseranno il clima di tensione tra le due superpotenze, Cina e Stati Uniti, e le accuse sulle pratiche di sfruttamento lavorativo. Ma le sue performance di crescita si sono mostrate in più occasioni resilienti ai terremoti mediatici e agli scandali. Temu, dal canto suo, ha fatto sin da subito le cose in grande. A un’aggressiva campagna di marketing tagliata su misura per i social media e per un pubblico di giovanissimi è seguita la pubblicità per il Super Bowl del 2023, mandata in onda durante il primo e il terzo quarto della partita tra i Philadelphia Eagles e i Kansas City Chiefs: lo spot, che ha lanciato il ritornello “compra come un miliardario”, continua a fare capolino sulle piattaforme social e di intrattenimento, garantendo l’accesso a merce infinita e a bassissimo costo.
Il fatturato del 2023 si aggira attorno ai 16 miliardi di dollari. Secondo la società di data analytics Earnest Analytics, a fine novembre Temu deteneva quasi il 17% della quota di mercato negli Stati Uniti nella categoria discount. A trainare la sua ascesa è un elemento che a CNBC un responsabile degli investimenti della californiana Running Point Capital Advisors ha descritto come il “vantaggio della novità”: un continuo ricambio di prodotti e un’attenzione maniacale per le ultime tendenze. A prezzi stracciati.
Marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea sul caso Jasic. Ha collaborato con Il Manifesto, Valigia Blu e altre testate occupandosi di gig economy, mobilitazione dal basso e attivismo politico. Per China Files cura la rubrica “Gig-ology”, che racconta della precarizzazione del lavoro nel contesto asiatico.