L’Indonesia di Suharto ha vietato l’insegnamento del mandarino per oltre 30 anni, durante i quali la comunità cinese ha subito discriminazioni e tentativi di assimilazione. Oggi le cose vanno molto diversamente: i rapporti tra Cina e Indonesia sono buoni e in parte lo si deve alla cooperazione bilaterale nel settore educativo, mentre sempre più indonesiani hanno iniziato a studiare cinese. “Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano. Clicca qui per le altre puntate
Qualche carattere semplificato e il suo corrispettivo pinyin scritti su una lavagna bianca, sporcata di nero dalle decine di cancellature di pennarello, uno schermo su cui proiettare video o riprodurre audio in mandarino (pǔtōnghuà, 普通话), un professore cinese, quaderni, libri scarabocchiati. Sembra la classica aula universitaria di un qualunque corso di mandarino, ma è una delle stanze del più grande santuario islamico del Sud-Est asiatico, la moschea Istiqlal di Giacarta (yǎjiādá, 雅加达).
A partire dallo scorso febbraio, per due volte a settimana, 25 studenti di tutte le età si ritrovano in quella stanza per imparare il mandarino di base. I corsi, gratuiti e sponsorizzati dal governo cinese, erano inizialmente pensati per insegnare la lingua allo staff della moschea (una delle principali attrazioni turistiche della città), ma poi sono stati aperti a tutti. «Chiunque è benvenuto, musulmani e non musulmani (…) la lingua non ha religione», ha detto il portavoce della moschea ad Arab News.
Il rapporto dell’Indonesia (yìndùníxīyà, 印度尼西亚) con l’insegnamento del mandarino non è sempre stato così aperto e idilliaco, anzi. Per oltre trent’anni, dal 1965 al 1998, il governo indonesiano ha vietato qualunque riferimento alla cultura cinese. Le scuole di lingua e mediazione vennero chiuse, l’esposizione pubblica dei caratteri cinesi vietata, i quotidiani in mandarino costretti a cessare le proprie attività. Era una politica figlia dell’anticomunismo e della guerra fredda, parte integrante del “Nuovo Ordine” instaurato dal presidente autoritario Suharto, al potere dal 1967 al 1998.
I primi governi a guida Sukarno che seguirono l’indipendenza dell’Indonesia dai Paesi Bassi, ottenuta nel 1949, erano invece per definizione “non allineati”, ma comunque in buoni rapporti con gli Stati comunisti del continente (Repubblica Popolare Cinese, Corea del Nord e Vietnam del Nord). Erano anni turbolenti – dalla rivoluzione comunista in Cina alle guerre in Corea e Vietnam – e agli scontri militari si accompagnavano spesso operazioni di influenza culturale e “soft power”. Nel caso specifico, in Indonesia, la lotta ideologica tra Repubblica Popolare e Repubblica di Cina divise la comunità cinese tra coloro che decisero di schierarsi con la nuova Cina comunista e chi invece scelse la “vecchia Cina” nazionalista del Koumintang, rifugiatosi a Taiwan.
Il risultato di questo scontro culturale fu la proliferazione negli anni Cinquanta di decine di scuole di mandarino che, a seconda del proprio orientamento politico, diffondevano propaganda comunista o nazionalista. A Sukarno preoccupavano più le seconde: dopo che Taipei fu accusata di aver supportato una rivolta contro il presidente, alla fine del decennio, le istituzioni filo-taiwanesi vennero bandite. E in generale, secondo Zhou Toumo, professore associato all’Università Nanyang di Singapore, i corsi di mandarino nelle scuole indonesiane finirono per «indirizzare politicamente [gli studenti] verso la Repubblica Popolare», ha detto al defunto The China Project.
Il tentato colpo di Stato del 1965, di cui l’allora generale Suharto accusò senza prove il Partito Comunista dell’Indonesia (PKI), portò infine al divieto totale delle scuole di mandarino. Il PKI venne bandito e tutti coloro che erano sospettati di esserne anche solo dei simpatizzanti furono aggrediti, imprigionati o massacrati. Tra il 1965 e il 1966 vennero uccise almeno 500 mila persone (sono stime al ribasso), compresi molti membri della comunità cinese, che in alcuni casi vennero privati dei propri beni o espulsi direttamente dal paese.
Con la sua ascesa al potere, Suharto non si limitò a vietare ogni manifestazione pubblica della cultura cinese, ma iniziò un più vasto tentativo di assimilazione di tutti i cinesi residenti in Indonesia (per esempio impose di trasformare il loro nome dal cinese all’indonesiano). Le politiche discriminatorie vennero abolite nel 2000 dal presidente Abdurrahman Wahid ma, dopo oltre trent’anni di repressione della cultura cinese, per molti sino-indonesiani fu difficile riallacciare i legami con la Repubblica Popolare. Anche perché gran parte di loro non parlava – e non parla – mandarino, ma altre lingue cinesi “locali”, come hakka, hokkien o teochew.
Da almeno un decennio le cose hanno iniziato a cambiare, in particolare dopo il lancio della Belt and Road Initiative (BRI) da parte di Pechino, nel 2013. L’Indonesia, la più grande economia del Sud-Est asiatico, è diventata un’importante destinazione per gli investimenti cinesi in vari settori, da quello dei servizi alla manifattura, passando per le nuove tecnologie.
Se per molti membri della comunità cinese imparare il mandarino è soprattutto un modo per restare ancorati alle proprie radici, per tutti gli altri parlare fluentemente cinese è il mezzo per non farsi scappare interessanti opportunità lavorative. Ma c’è anche un aspetto “pop” da tenere in considerazione: insieme a chi sogna di farci carriera, tanti giovani indonesiani vogliono imparare il mandarino per essere in grado di usufruire dei prodotti culturali cinesi in lingua originale (come le serie tv, ad esempio).
Dopo un paio di decenni di rodaggio, dovuto a un contesto ancora fortemente anticomunista e diffidente nei confronti degli immigrati cinesi, in alcuni casi accusati di “rubare il lavoro” ai residenti nel paese, negli ultimi anni sempre più indonesiani hanno cominciato a studiare mandarino. Non si conosce il numero preciso degli studenti di cinese in Indonesia, ma esistono corsi di mandarino ormai ovunque. Scuole, università, centri linguistici, piattaforme online. In due decenni i siti specializzati nell’insegnamento del cinese sono riusciti ad aumentare esponenzialmente il numero dei propri iscritti. Per esempio uno di questi, il Caiming Mandarin Education Centre, è passato da 150 studenti a 3 mila nel corso di vent’anni, riporta lo Straits Times.
Restano ancora alcune criticità da risolvere, come la qualità dei corsi – che spesso non vanno oltre un livello di conoscenza intermedio della lingua – e la loro integrazione nel sistema scolastico indonesiano, ma le cose stanno migliorando. Nel corso degli anni Cina e Indonesia hanno firmato vari accordi di cooperazione nel settore educativo, e a tanti ragazzi indonesiani oggi vengono concesse borse di studio per continuare la propria formazione nella Repubblica Popolare. E la componente diplomatica di tutto questo non va sottovalutata.
Al di là delle questioni economiche, infatti, diversi analisti sostengono che l’insegnamento del mandarino abbia contribuito al progressivo miglioramento delle relazioni tra Giacarta e Pechino, cancellando (almeno parzialmente) i precedenti trent’anni di repressione e aperta ostilità nei confronti della cultura cinese. Tanto che in molti casi a insegnare la lingua in Indonesia sono dei volontari inviati direttamente dalla Repubblica Popolare. Fino a poco tempo fa, anche solo immaginare scene come quelle che si ripetono due volte a settimana nella moschea Istiqlal sarebbe stato impossibile.
A cura di Francesco Mattogno