La situazione delle persone con disabilità in Cina è progressivamente migliorata negli ultimi trent’anni, ma restano ampi margini per una maggiore inclusione, soprattutto a livello sociale. Leggi, retorica e realtà non sempre vanno di pari passo. “Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio di Milano. Qui per recuperare le altre puntate
«Il sogno cinese è il sogno della nazione, della patria, è il sogno di ogni persona cinese, comprese quelle con disabilità». Lo scorso 18 settembre il Quotidiano del Popolo ha presentato con queste parole del presidente Xi Jinping l’8° Congresso nazionale della Federazione Cinese delle Persone Disabili (CDPF), organizzazione statale fondata nel 1988 allo scopo di promuovere i diritti delle persone con disabilità. Per l’occasione la Grande Sala del Popolo di Pechino ha accolto oltre 600 delegati da tutto il paese e l’intero Comitato Permanente del Politburo, a eccezione di Li Xi, che in quei giorni si trovava a Cuba.
Per due giorni consecutivi il Quotidiano del Popolo – il giornale del Partito comunista cinese (Pcc) – ha dedicato la sua prima pagina all’evento, durante il quale il vicepremier Ding Xuexiang ha elencato in un discorso tutti i progressi compiuti dalla Cina per migliorare le condizioni di vita delle persone con disabilità: sussidi, potenziamento delle strutture sanitarie e dei servizi educativi, inserimento nel mondo del lavoro e così via. Il sostegno alla causa delle 85 milioni di persone disabili cinesi è una delle fonti di legittimità interna (e internazionale) del partito, e per lo stesso Xi si tratta di una questione da trattare con cura.
Non è raro, ad esempio, che i media di Stato ripropongano a cadenza quasi regolare le immagini del segretario generale del Pcc in alcune manifestazioni di “benevolenza” nei confronti di persone cieche o ipovedenti, senza un arto, paralizzate. Sui giornali trovano poi spazio varie storie di disabilità a lieto fine o di successo, come quelle degli atleti paralimpici. Ma l’attenzione di Pechino verso le persone disabili non è solo retorica.
Trent’anni di passi in avanti
Il 1° settembre, un paio di settimane prima del Congresso della CDPF, in Cina è entrata in vigore la Legge sulla creazione di un ambiente privo di barriere architettoniche, che dovrebbe permettere di velocizzare il processo di costruzione e conversione degli ambienti urbani per renderli accessibili alle persone con limitate capacità motorie. Una norma che «affronta dei problemi reali», ha detto l’avvocato Zhang Wenjie a Sixth Tone. Negli ultimi anni la Cina ha fatto molto per aumentare l’accessibilità degli spazi pubblici, compresi locali, stadi, autobus: solo dal 2020 a Shanghai sono state costruite oltre 50 mila rampe per sedie a rotelle.
C’è poi tutto un settore tecnologico ancora in fase di ricerca e sviluppo dedicato alle persone con disabilità. Robot e sistemi di intelligenza artificiale e di realtà aumentata da impiegare nell’assistenza, app per indicare rampe e punti di accesso per chi ha difficoltà motorie, “wheelchair sharing”, sistemi facilitati per il pagamento o l’accesso ai conti bancari (come WeBank di Tencent). Rimangono ancora ampi margini di miglioramento, soprattutto per quanto riguarda la vivibilità delle città, ma le politiche governative hanno fatto registrare diversi passi in avanti.
Quella del 2023 è infatti l’ultima di una serie di normative e regolamenti cinesi a tutela dei diritti delle persone disabili, cominciate con la Legge per la protezione delle persone con disabilità del 1990. La norma, poi revisionata nel 2008, serviva a dare un campo di applicazione all’articolo 45 della costituzione cinese del 1982, nel quale lo Stato si impegnava a “fornire assistenza materiale” alle persone con disabilità. Da allora si è lavorato molto sul piano legislativo per favorire l’inclusione delle persone disabili nella sfera sociale e lavorativa, anche tramite le attività della CDPF.
In tal senso il 2008, l’anno in cui Pechino ha ospitato le sue prime olimpiadi e paralimpiadi, è stato un punto di svolta. Oltre alla già citata revisione della storica Legge del 1990, la Cina (alla ricerca di consensi da parte della comunità internazionale) è stata uno dei primi paesi a ratificare la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, e sul piano interno ha obbligato le aziende ad assumere una quota minima dell’1,5% di persone disabili tra i propri dipendenti. Dal 2015, il mancato rispetto della quota obbligatoria si traduce in una multa per le aziende inadempienti. Che molte però accettano di pagare.
I problemi
«Il problema non è il governo, sono le persone», ha dichiarato qualche anno fa al New Statesman Liu Wenzheng, un fotografo pechinese che ha perso una gamba durante la Rivoluzione culturale. Per molti cinesi la disabilità resta un motivo di discriminazione ed emarginazione sociale, qualcosa da tenere nascosto. Un fattore che si amplifica nel caso delle disabilità mentali. Nel 2017 il governo ha pubblicato un regolamento per permettere l’accesso a 9 anni di istruzione obbligatoria per tutti i bambini e adolescenti disabili, vietando alle scuole di rifiutare uno studente per via della sua disabilità, fenomeno tutt’altro che raro prima dell’introduzione della norma: un rapporto di Human Rights Watch del 2013 aveva rivelato che circa il 40% dei cinesi disabili era analfabeta.
Nonostante nuove leggi e regolamenti abbiano contribuito ad aumentare il numero delle persone con disabilità ammesse a scuola (dalle 199 mila del 2012 alle 468 mila del 2021) e impiegate (8,62 milioni nel 2022), vige ancora una certa discrepanza tra la teoria e l’applicazione concreta delle norme. Chi lavora può beneficiare di ben poche opportunità di carriera ed è difficile che venga pagato oltre il salario minimo o che possa ottenere una promozione. Questo comporta una serie di ripercussioni anche sul piano sociale e affettivo. Se la disabilità è sinonimo di basso reddito, trovare un partner diventa complicato, soprattutto per gli uomini.
Essere persone con disabilità per molti cinesi significa non solo essere diversi, ma anche inefficienti, meno produttivi. Le persone disabili in Cina rappresentano circa il 6% della popolazione totale (85 milioni su 1,4 miliardi): si tratta di un dato molto al ribasso rispetto alla media mondiale (15%), che potrebbe essere frutto di una “selezione” operata durante gli anni della politica del figlio unico.
La traduzione odierna di “disabile” in cinese è cánjí (残疾), ma fino agli anni ’90 per riferirsi alle persone con disabilità si utilizzava il termine cánfèi (残废), che unisce due caratteri che significano “incompleto” e “da scartare/inutile”. La situazione sta migliorando, anche sul piano della consapevolezza collettiva, ma (come in altre parti del mondo) si è ancora lontani da una vera e propria accettazione della disabilità a livello sociale. E in questo lo Stato non sempre aiuta.
Quella di Pechino è infatti spesso una narrazione ambigua, a due facce. Da un lato dipinge chi è disabile come un “eroe”, in grado di poter vincere la “battaglia” della propria tragedia personale prendendo a modello alcuni esempi illustri, come gli atleti paralimpici. Dall’altro parla di loro come di persone fragili che hanno bisogno di aiuto. La retorica del “farsi da soli” contro quella dello Stato paternalista: una contraddizione che a volte si è ritorta contro la leadership. Molto più semplice è fare leva sul “sogno” e sulla “modernizzazione cinese”. Due cardini della Nuova era di cui fanno parte tutti, nessuno escluso.
A cura di Francesco Mattogno