Nel 2015 Pechino puntava a rendere la Cina una “superpotenza calcistica” entro il 2050. Quasi dieci anni dopo la nazionale maschile cinese fatica ancora a qualificarsi ai mondiali e tutto il sistema è sommerso dagli scandali legati a corruzione, combine e calcioscommesse. “Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano. Clicca qui per le altre puntate
Lo scorso 10 settembre, al termine di un’indagine per corruzione durata due anni, la Federazione Calcistica Cinese (CFA) ha annunciato di aver squalificato a vita dalle sue competizioni 38 calciatori e 5 dirigenti, colpevoli di aver organizzato decine di combine e scommesse illegali. Tra loro figurano anche due ex giocatori della nazionale cinese e il centrocampista sudcoreano Son Jun-ho, che si professa innocente. Insieme ad altri 15 calciatori, squalificati per cinque anni, le persone condannate avrebbero truccato 120 partite del campionato cinese, coinvolgendo nelle combine 41 club. La notizia non è arrivata in un bel momento per gli appassionati dello sport in Cina.
Solo qualche giorno prima, il 5 settembre, la nazionale maschile cinese di calcio (zúqiú, 足球) collezionava la peggior sconfitta in partite ufficiali della sua storia, perdendo 7-0 contro il Giappone nel match (zúqiúbǐsài, 足球比赛) valido per le qualificazioni alla prossima coppa del mondo, in programma nel 2026. Sui social i tifosi non l’hanno presa benissimo. Qualcuno ha parlato di «giorno dell’umiliazione», molti hanno chiesto le dimissioni del commissario tecnico Branko Ivankovic, altri quelle di tutta la squadra. E persino l’ex capitano della nazionale Fan Zhiyi ha detto che vedere la partita gli aveva messo voglia di «buttarsi nel fiume Huangpu».
Più in generale, la sensazione di gran parte degli esperti è che il movimento calcistico cinese abbia ormai toccato il fondo (almeno a livello maschile, visto che la nazionale femminile si mantiene da decenni su buoni livelli). Eppure, secondo le intenzioni del presidente Xi Jinping, in questi anni le cose sarebbero dovute andare molto diversamente. Nel 2015 il governo cinese aveva infatti stilato un programma (il “Piano generale di riforma e sviluppo del calcio cinese”) per trasformare la Cina in una superpotenza calcistica entro il 2050, ponendosi come obiettivo ultimo la vittoria dei mondiali.
L’idea era quella di rendere il movimento competitivo sia sul piano infrastrutturale (costruendo più stadi, campi e centri sportivi), sia su quello prettamente sportivo, aumentando l’attrattiva del massimo campionato cinese (la Chinese Super League) grazie all’acquisto di campioni provenienti dalle leghe europee e sudamericane. Il maggior livello del campionato, unito all’insegnamento del calcio in tutte le scuole, avrebbe dovuto innescare un circolo virtuoso in grado di generare 50 milioni di giovani calciatori entro dieci anni, con i quali iniziare a costruire le basi della nazionale cinese del futuro.
Per un po’ ha funzionato, almeno sul fronte commerciale. Nel corso degli anni molte grandi aziende cinesi iniziarono a rilevare varie squadre in tutto il paese (tra le prime a farlo ci fu il colosso dell’immobiliare Evergrande, che acquistò il Guangzhou nel 2010), investendo massicciamente sulle infrastrutture e sul calciomercato: i club, grazie alle loro enormi disponibilità economiche, riuscirono così a portare nel campionato cinese una serie di grandi calciatori (zúqiúyùndòngyuán, 足球运动员) e allenatori (zúqiú jiàoliàn, 足球教练) pagando decine di milioni di euro per cartellini e stipendi. Tra i tanti nomi, anche italiani, uno di quelli che fece più rumore fu quello di Oscar, trequartista brasiliano comprato per 60 milioni di euro dallo Shanghai Port quando ancora si trovava all’apice della sua carriera (quasi tutti gli altri campioni sbarcati nella Chinese Super League vi arrivarono invece in fase calante).
Altri colossi cinesi si spinsero poi oltreconfine, acquistando quote di minoranza o di maggioranza di diversi club europei. Un caso emblematico riguarda l’Italia: l’Inter ha vinto due scudetti sotto la gestione Suning, iniziata nel 2016 e terminata a maggio 2024, quando l’azienda cinese è stata obbligata a cedere la squadra alla società americana di gestione patrimoniale Oaktree a causa della sua insolvenza sui debiti del club. Di fatto, la bolla è scoppiata presto. Oggi sempre meno squadre europee hanno dei proprietari cinesi e Oscar è uno dei pochi grandi giocatori a militare ancora nella Chinese Super League.
Complice la competizione geopolitica con gli Stati Uniti, aggravata dall’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2016, Pechino ha iniziato a ridurre la quota di investimenti non strategici all’estero, impedendo inoltre alle società di calcio di strapagare il cartellino e gli stipendi dei giocatori (fissando per esempio un “salary cap”, cioè un tetto massimo ai salari dei calciatori). Questo, unito alla pandemia da Covid, alla crisi del settore immobiliare e al generale rallentamento della crescita economica cinese ha ridotto i fondi e gli investimenti da indirizzare nel calcio cinese. E da virtuoso, il circolo è diventato vizioso. Senza soldi i campioni hanno smesso di arrivare, il livello del campionato è sceso, così come quello delle infrastrutture, le giovanili delle squadre si sono svuotate, impoverendo la nazionale, ed è complessivamente scemata tutta quell’onda di entusiasmo che si respirava fino a un decennio fa.
Ma non tutto è riconducibile al denaro. Alla poca rilevanza del calcio cinese concorrono probabilmente anche questioni sociali (molte famiglie vedono il calcio come una distrazione dallo studio per i loro figli) e sistemiche. Gli alti e i bassi che hanno caratterizzato l’ultimo decennio non sono una novità per il movimento, che aveva già vissuto un andamento simile a cavallo tra i due secoli. Fino ai primi anni Novanta tutte le risorse delle società calcistiche erano infatti gestite a livello statale, ed è solo nel corso di quel decennio che la CFA venne decentralizzata, aprendosi al mercato (permettendo così l’acquisto delle squadre da parte dei privati) e creando la lega di calcio professionistico cinese nel 1994.
L’apertura agli investimenti privati aumentò il livello degli stipendi e il numero di giocatori nei vivai, formando in poco tempo la miglior generazione di giocatori cinesi di sempre, che nel 2002 centrò una storica qualificazione ai mondiali (al momento resta l’unica apparizione della Cina nel torneo). Il sistema si rivelò però fragile, soprattutto sul fronte dei controlli, rivelandosi terreno fertile per la corruzione.
Gli scandali legati a combine e calcioscommesse si sono ripresentati più volte nel corso dei decenni, affossando ciclicamente il movimento, anche se forse mai con la forza di questi ultimi due anni. Le indagini iniziate nel 2022 hanno portato a decine di sentenze non solo a carico dei calciatori, ma anche dei maggiori vertici della stessa CFA, che ha visto cadere il suo ex presidente Chen Xuyuan («tutto il sistema è corrotto», ha dichiarato Chen nella sua confessione pubblica) e il suo vice Li Yuyi, condannati nel corso del 2024 rispettivamente all’ergastolo e a 11 anni di carcere. Un altro nome rilevante parte degli scandali è poi quello dell’ex allenatore della nazionale Li Tie, a processo per aver accettato milioni di dollari di tangenti.
Toccato il fondo, non resta che risalire. Dopo aver perso con il Giappone – a cui sono seguite due sconfitte di misura con Australia e Arabia Saudita – a ottobre la nazionale cinese ha infatti battuto a sorpresa l’Indonesia e, complice l’allargamento del numero di squadre che parteciperanno al torneo, è ancora in corsa per qualificarsi alla coppa del mondo del 2026. Una piccola fiammella di speranza per un movimento in cui, ovunque si guardi, è buio pesto.
Articolo a cura di Francesco Mattogno