Li Naihan vive a Londra quando nel 2008 scoppia la crisi finanziaria. Cosa fa? Si inventa mobili che si possono richiudere in valigia e torna a Pechino. Porta con sé tutto l’arredo. Wu Xuefu, invece, mette in mostra gli oggetti di uso quotidiano: chinese stuff. I thermos, i vestiti, il cibo e le sputacchiere della vecchia Cina sono anch’essi pezzi di design. Riscoprire la tradizione, serve ad immaginare un nuovo futuro.
Si chiude. Gli spazi adibiti ad ospitare la Beijing Design Week tornano al loro vecchio utilizzo. I designer stranieri e cinesi impacchettano i propri lavori, gli addetti ai comunicati stampa e i giornalisti preferiscono un caffè, bevuto con calma, all’intasata casella di posta.
Cosa è rimasto? Un armadio di legno che si chiude in una valigia della giovane designer Li Naihan e un minuscolo barattolo di balsamo di tigre, pezzo della mostra Chinese Stuff curata dal docente Wu Xuefu. ma soprattutto la sensazione che questi due prodotti del design contemporaneo cinese abbiano molto più da dire.
“Ho studiato architettura a Londra. Nel 2004 sono tornata a Pechino e nel 2006 ho fondato con una curatrice italiana, Beatrice Leanza, il Bao Atelier”. Li Naihan, è un fiume di parole, tutte pronunciate in un inglese pressoché perfetto, difficile interromperla e difficile non ascoltarla.
Nasce nel 1981 ad Haerbin, nel più freddo nord del continente di mezzo, lampante esempio della generazione nata dopo gli anni Ottanta, dal piglio sicuro e concreta, figlia di una società globalizzata, vede il mondo e tutte le sue opportunità, che è sicuramente pronta a cogliere. “In Cina, in un certo qual modo è più facile essere un designer. Intanto il costo della vita è più basso e anche il lavoro manuale. E poi, non subiamo troppe pressioni”
Naihan oggi disegna e produce sedie, poltrone e letti, tutti a scomparsa: richiudibili in una valigia che ricorda quelle dei tanti migranti che all’inizio del Novecento si spostavano da un continente ad un altro. “Nel 2008 finalmente c’è stata la crisi finanziaria e ho potuto riflettere e pensare cosa poter fare per me stessa”. Mentre un broker di un’importante banca londinese meditava sul suicidio, la bella Li Naihan, ha cominciato a costruire i suoi mobili-valigia, “Dovevo spostarmi da una parte all’altra del mondo. Perché non chiudere tutto in una valigia? E quando dico tutto, intendo tutto”.
Il feedback è stato positivo, i suoi prodotti sono venduti in uno dei più importanti atelier di Pechino, il Wu Hao, anche grazie all’attenzione ai dettagli e al lavoro artigianale che c’è dietro. “Lavoro con carpentieri e artigiani, l’aspetto del lavoro manuale è fondamentale”. La giovane designer rivaluta una tradizione che non è limitata ai confini nazionali, ma che è condivisa con le mille persone che ha incontrato nel corso dei suoi studi e delle sue esperienze, sia all’estero che in Cina.
Di tradizione parla anche Wu Xuefu, curatore di Chinese Stuff e docente all’Università di Comunicazione di Pechino. Lui è nato negli anni Settanta, ed è un esponente di una generazione disillusa e pessimista. “In Cina vediamo ancora i curatori stranieri come degli dei che scendono dal cielo e scelgono questo o quel prodotto, ma siamo noi che dobbiamo riflettere sulla nostra tradizione come password culturale. Questo cerco di insegnare ai miei studenti”.
Chinese Stuff è una mostra che raccoglie molti oggetti cinesi di vita quotidiana, riuniti però in uno spazio asettico e liberati, quindi, dalla loro funzione per far risaltare l’originalità artistica e di design. Oggetti comuni, che ognuno di noi può incontrare in una passeggiata per le vie di tutte le città cinesi: gli abachi, che vengono ancora utilizzati in alcuni negozi per fare i conti, i pantaloni dei bambini con il buco all’altezza del cavallo, in modo che tutti i bisogni si facciano senza troppa difficoltà, le sputacchiere, di cui ricordiamo quella della foto di Mao e Kissinger, ma che si trovano spesso anche negli ospedali e negli hotel in Cina.
“Sono tutti oggetti che purtroppo inosservati, ma sono loro che definiscono il nostro punto di vista culturale, i media cinesi ormai diffondono un volto della Cina irreale, fatta o di alti grattacieli dai vetri luccicanti o viceversa, un’immagine di una Cina antica ed esotica, ad esempio l’opera di Pechino. Ma è questa la Cina che ci appartiene davvero?”
La mostra intende accentuare la vita nel suo quotidiano in una normalità che può, paradossalmente, risaltare per particolarità e stravaganza. “Non possiamo allontanarci dalla realtà attuale, possiamo solo ritrovare noi stessi e i nostri oggetti più familiari”
Chissà, forse è proprio la combinazione di questi due approcci che riuscirà a produrre un Made in China di nuova generazione e a infondere sicurezza nell’animo dei cinesi. Magari poi non avranno più bisogno del giudizio di un Apollo occidentale per sentirsi all’altezza di confrontarsi con il mondo intero.
[Foto di Nicola Longobardi per China Design News]