A una settimana dalle “proteste dei fogli bianchi” , in Cina, le esternazioni di malcontento verso la strategia Zero Covid sono ormai circoscritte e localizzate. Gli slogan contro Xi Jinping e il Partito si sono dissolti nell’etere. Merito non solo del massiccio dispiegamento di polizia nelle strade, ma anche del progressivo alleggerimento dei provvedimenti restrittivi. Ma come interpretare quanto successo negli scorsi giorni? Le proteste, le più massicce dal massacro di Tienanmen, segnano davvero una nuova fase per la Cina? Gli slogan a favore della libertà di espressione rivelano che il benessere economico ai cinesi non basta più? O semplicemente il problema è che quel benessere economico è oggi minacciato dalle politiche sanitarie di Pechino?
Per cercare di rispondere a queste e altre domande abbiamo intervistato Marco Fumian, docente di lingua cinese presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale e fondatore della rivista Sinosfere, e Gianluigi Negro, docente di lingua e traduzione cinese presso l’Università di Siena nonché autore di “Le voci di Pechino. Come i media hanno costruito l’identità cinese” (Luiss University Press, 2022).
Il paragone più immediato è quello con le proteste dell’89. Secondo te è calzante? Quali sono le principali differenze?
Fumian: No, penso che sia molto fuorviante. Non sono in grado di valutare la diffusione e il significato politico delle attuali proteste, ma quelle dell’89 giungevano al termine di un periodo di tensioni evidenti tra Partito-Stato e società. Il primo all’epoca stava cambiando pelle ma, pur avendo già intrapreso la strada delle riforme, non aveva ancora abbandonato del tutto l’ideologia maoista e i suoi metodi repressivi, mentre per contro fra le élite culturali del paese c’era una tendenza abbastanza diffusa a vedere nella democrazia liberale occidentale una soluzione per contrastare la “dittatura” del Partito comunista. Le rivendicazioni di libertà avanzate in questi giorni, invece, non necessariamente veicolano delle istanze politiche liberali, anche se possono diventare un cavallo di Troia per riportare nella sfera pubblica alcuni temi del discorso liberale in buona parte soppressi negli ultimi dieci anni.
C’è un qualche precedente recente? A me è venuta in mente la “rivoluzione dei gelsomini” del 2011 sulla scia delle primavere arabe. Fu un movimento silenzioso, circoscritto geograficamente, e praticamente abortito sul nascere.
Fumian: Non so quale sia stato l’impatto reale di questi movimenti in Cina all’inizio degli anni Dieci. Va detto, tuttavia, che la sfera pubblica all’epoca era un terreno relativamente fecondo caratterizzato da un certo pluralismo quantomeno a livello intellettuale. Era anche evidente un certo dinamismo della nascente società civile che esprimeva una crescente attenzione per i diritti sociali e civili. È anche per questo che il Partito, sotto Xi Jinping, ha avviato una svolta conservatrice. La “minaccia” delle “rivoluzioni colorate”, in ogni caso, è stata ampiamente sfruttata dalla propaganda governativa per giustificare il crescente trinceramento politico e ideologico del Pcc, chiamato a difendere la sovranità nazionale dagli attacchi delle “forze ostili occidentali” e dei loro emissari in patria che promuovono i “valori occidentali” indebolendo l’unità cinese. Questo è il discorso. Ecco, forse le politiche draconiane e sempre più estremiste nel contenimento del Covid vanno lette anche in questa ottica di securitarizzazione esasperata che si è inasprita nel confronto sempre più aspro con gli Stati Uniti.
Negro: Sì assolutamente. La “rivoluzione dei gelsomini” ha avviato un trend storico di accentramento e di stretta sui media, sui social, e su internet. La stretta è stata innanzitutto da un punto di vista istituzionale con una gestione più formalizzata dei media: con Xi Jinping è stata creata l’Amministrazione per la Cybersicurezza per risolvere il problema della frammentazione della gestione dei media. Al contempo, è stata portata avanti anche una ideologizzazione del settore mediatico. Penso al documento numero 9 – circolato solo informalmente – che condanna i valori occidentali, tra cui la libertà di espressione. L’episodio della censura del Nanfang Zhoumo [testata del Guangdong un tempo nota per le sue inchieste] dimostra come quel controllo fin dall’inizio del governo Xi Jinping sia stato esteso anche ai media tradizionali.
Come la vedi questa critica alla censura? È Xi che con il Covid è andato troppo oltre o sono cambiati i cinesi? A me delle ultime proteste ha colpito molto la richiesta di libertà di espressione. Tendiamo a credere che ai cinesi la censura non pesi più di tanto, che possono benissimo fare a meno dei social occidentali, che i giovani ozino davanti ai videogame e non si interessino di politica.
Fumian: Non ne farei un discorso teorico sulla censura. Non credo si possa individuare un atteggiamento per così dire costante dei “cinesi” nei confronti della censura. Il punto, mi sembra, è capire il perché. Quali sono i motivi specifici di questa insorgenza localizzata ma diffusa. L’impressione che uno ne trae è che oggi molti cinesi, provati da questo interminabile stato di eccezione, percepiscano ormai la situazione che stanno vivendo come un’ingiustizia. Mentre prima il governo, con le sue misure, garantiva ai cittadini sicurezza, e quindi c’era un certo consenso nei confronti delle limitazioni delle libertà, oggi queste misure probabilmente appaiono a molti insensate, ingiuste, controproducenti, e quindi illegittime. Qual è la ragione di tanta sofferenza? La protezione della popolazione? O l’autoreferenzialità del Pcc? Probabilmente è la percezione che le azioni del governo manchino di una legittimità politica e una base morale che ha spinto alcuni a esternare il loro dissenso, con l’appoggio di molti. Anche se questo comporta dei rischi per la propria incolumità.
Negro: Si, anche se c’è sicuramente un elemento di continuità con il passato. Quello che Yang Guobin nel 2009 definiva processo coevolutivo: al maggiore controllo e alla censura gli utenti, soprattutto sui social media, reagiscono con forme creative di risposta. Pensiamo ai vari neologismi e omofoni spuntati in rete negli ultimi anni per parlare di temi sensibili. Allo stesso tempo, però, dalle ultime proteste emerge un’ interessante novità: l’utilizzo dell’autocensura come forma di critica. I fogli bianchi e gli screenshot con riquadri neri stanno a segnalare l’impossibilità di comunicare. E questo è importante da una parte perché sancisce una forma comunicativa in grado di esprimere un dissenso non censurabile. Dall’altra perché dimostra una piena consapevolezza di alcuni utenti cinesi in termini di libertà di espressione.
Negli ultimi tre anni, contestualmente al covid, sono nati movimenti di resistenza passiva dal “bai lan” al “tang ping”. Primi segni che forse qualcosa stava cambiando? D’altronde sono soprattutto i giovani a scontare il colpo di coda della Zero Covid. L’economia arranca e la disoccupazione è alle stelle. Secondo te ci sono le premesse perché diventi un movimento di protesta veramente trasversale? Penso agli scontri nella Foxconn. Il contesto è diverso da quello di Pechino e Shanghai, ma la fascia d’età mi sembra sempre quella tra i 20 e i 30.
Fumian: Quanto dici è suggestivo, ma è difficile ipotizzare che questo si possa tradurre in un movimento di protesta collettivo, generazionale, volto a cambiare il sistema, almeno per adesso. In fondo, dal punto di vista economico, non penso che i nostri giovani vivano una situazione molto diversa. Condizioni salariali peggiorate, disoccupazione, competitività altissima e retorica del merito a nascondere la realtà amara delle disuguaglianze. E’ l’ideologia neoliberale che ha mietuto vittime tanto da noi quanto in Cina. Con questo non voglio dire che non ci siano differenze. Almeno in Cina negli ultimi decenni i salari sono cresciuti, anche se la competizione è sempre stata ferocissima, dato che questa comincia sin dall’istruzione elementare (se non dalla scuola materna!). E nulla sembra essere stato fatto davvero per ridurre il divario fra la minoranza dei fortunati e la maggior parte della gente che “lotta”, o arranca, per migliorare le proprie condizioni di vita. Anzi, proprio la retorica della lotta è stata usata in Cina tanto a livello governativo quanto nella cultura popolare per incentivare lo sforzo personale nella competizione e giustificare la subalternità di chi rimane indietro. Quando alcuni giovani hanno in qualche modo esternato l’idea che, piuttosto che piegarsi a questa logica della lotta, preferivano “sdraiarsi”, i media di stato hanno risposto ammonendoli sulla inopportunità di “sdraiarsi” prima di essere diventati ricchi. D’altra parte il dibattito sul “tang ping”, ovvero la filosofia dello “sdraiarsi” esprime un desiderio diffuso di diserzione, non un movimento antagonista. Bisognerebbe poi capire meglio quali sono le istanze che hanno guidato le proteste della Foxconn.
Alcuni manifestanti hanno esposto il ritratto di Mao e intonato l’Internazionale. Come pensa che questo sia conciliabile con le altre richieste democratiche?
Fumian: Non ho seguito molto quindi non ho interpretazioni molto valide. Non mi sorprende però che abbiano attinto a queste fonti… è una questione di repertorio, credo, entrambi i “segni” (Mao e l’Internazionale) appartengono alla tradizione comunista cinese, che viene usata probabilmente come fonte di legittimazione morale. Mao viene usato spesso per avanzare delle istanze di giustizia sociale, essendo un simbolo del partito viene a costituire un discorso legittimo. Come probabilmente avviene in ogni protesta, si assomma una pluralità di voci, o meglio forse potremmo dire che i gruppi politici coinvolti entrano nelle proteste cercando di portare i loro significati al loro interno.
Ci sono effettivi rischi per il sistema? O le proteste si estingueranno? Come reagirà Pechino? La “A4 Revolution” diventerà una seconda Hong Kong?
Fumian: Dubito che queste proteste, di per sé, comportino dei rischi per il sistema. Probabilmente si sgonfieranno, ma il malcontento tendenzialmente continuerà a serpeggiare. D’altra parte, se il Pcc continua a contenere il Covid in questo modo, il malessere continuerà a fermentare. Ma se le politiche anti-Covid verranno allentate, è possibile che alcuni problemi relativi alla capacità di controllo sociale del governo vengano messi a nudo, svelando delle fragilità del sistema che il Partito non vuole mostrare, impegnato com’è a comunicare un’immagine di forza e efficienza. Ma la relativa forza o debolezza del CCP e del suo leader onnipotente si misurerà nel medio periodo in risposta all’evoluzione di molti problemi complessi, dalla situazione economica agli equilibri internazionali. Anche le eventuali reazioni della società alla leadership del Partito dipenderanno probabilmente dall’evoluzione di queste congiunture.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato in forma ridotta su Esquire]
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Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.