Demonetizzazione in India: numeri, obiettivi e propaganda

In by Simone

A quasi un mese dall’inizio della demonetizzazione in India il caos iniziale dei primi giorni, almeno a New Delhi, ha lasciato spazio a un sentimento di rassegnazione diffuso. Gli inconvenienti continui alla vita quotidiana delle persone sembrano essere diventati la normalità, una sofferenza inevitabile generalmente sopportata per il «bene comune» che il ritiro delle 500 e 1000 rupie rappresenterebbe per l’India: colpire la corruzione e l’evasione fiscale. Dando un’occhiata a un po’ di numeri, però, l’impressione è che dietro la propaganda governativa i reali obiettivi della «misura storica» possano essere altri.Per costringere centinaia di milioni di persone a fare settimanalmente diverse ore di fila in banca o ai bancomat, stravolgendo radicalmente le proprie abitudini del consumo e mettendo a rischio la – già flebile – sicurezza economica di milioni di indigenti, occorre avanzare delle ottime ragioni. E per evitare che il panico degeneri nel caos, le ragioni non solo devono essere ottime, ma eccezionali, di portata storica.

Questo, da un mese a questa parte, è stato il tenore della retorica governativa rispetto alle operazioni di demonetizzazione delle banconote da 500 e 1000 rupie, pari all’86 per cento della liquidità in circolo nel paese. Una misura straordinaria e storica per colpire, una volta per tutte, i mali atavici della corruzione, della stampa di banconote false e dell’evasione fiscale, responsabili principali del freno che blocca il potenziale inespresso dell’economia indiana. La popolazione è stata invitata a più riprese a «sopportare» gli inconvenienti temporanei del «credit crunch» interpretando le difficoltà da sormontare come la lotta che gli «indiani per bene», al fianco del governo, combattono contro le tante mele marce che accumulano «black money» togliendolo a chi più ne ha bisogno.

Si tratta di un impianto epico molto ben architettato e, ad oggi, assolutamente efficace. Considerando le difficoltà che oggi tutti, in India, sono tenuti ad affrontare, la situazione dell’ordine pubblico nel paese è tutto sommato ampiamente sotto controllo e secondo diversi sondaggi – più o meno pilotati – la stragrande maggioranza degli indiani sostiene la misura promossa dal proprio leader; anche se significa pagarne in prima persona in termini di tempo, giornate di lavoro perse in fila in banca, spese quotidiane rimandate, soldi persi nel cambio affidato allo strozzinaggio di quartiere, calo delle vendite e dei consumi, enorme insicurezza del futuro.

Narendra Modi e i suoi ministri, messi di fronte alle condizioni critiche di milioni di persone e agli impedimenti logistici della distribuzione di nuove banconote correnti, hanno spiegato che l’emergenza temporanea può essere facilmente superata cambiando le proprie abitudini di consumo, passando da un’economia «cash» a un’economia «cashless». O ancora più chiaramente, nel solco delle frasette ad effetto tipiche dell’amministrazione modiana, passare dai «soldi di carta» ai «soldi di plastica»: carte di credito, carte di debito, pagamenti online attraverso le app e gli e-wallet dei propri smartphone.

Insomma, basta usare le carte di credito o l’instant payment online e «chi non ha soldi sporchi non ha nulla di cui temere» (Arun Jaitley, ministro delle finanze, dixit): grazie al setaccio forzate di tutta la cartamoneta attraverso il sistema delle banche, chi ha rubato verrà scoperto e punito, lo stato (quindi, per estensione, tutti gli indiani di buona volontà) guadagnerà entrate precedentemente evase e quei soldi, prima negati alla collettività, saranno utilizzati a fin di bene.

Tutto bellissimo ma molto, molto vago, a partire dai numeri.

Prima di tutto, di quanti soldi stiamo parlando?

Banconote false

Secondo i dati della Reserve Bank of India (Rbi), ripresi da Firstpost, nel 2015/16 in India il valore di tutte le banconote in circolazione in India era pari a 16.410 miliardi di rupie (225 miliardi di euro); di queste, il valore totale delle banconote false rilevate dalla Rbi era pari a 296,4 milioni di rupie, cioè lo 0,0018 per cento del totale. Attenzione, queste sono solo le banconote che la Rbi ha identificato da sola, a cui dobbiamo aggiungere tutte quelle sequestrate dalla polizia nel 2015 (438 milioni di rupie) e fino al 30 settembre del 2016 (278 milioni di rupie). In totale, quindi, fanno 1.012,4 milioni di rupie, poco più di un miliardo di rupie, cioè un sedicimillesimo di tutti i soldi in contanti che girano in India.

Il governo Modi sostiene, a ragion veduta, che ce ne siano molti di più in giro e che la demonetizzazione permetta di farli rientrare «tutti». Sempre Firstpost riporta uno studio congiunto dell’Indian Statistical Institute e della National Investigation Agency (una delle polizie federali indiane) in cui si stima che, di media, ci siano in circolazione almeno 4 miliardi di rupie in banconote false. Fondi che, nella vulgata locale, servono anche a finanziare il terrorismo pakistano nel paese. Rispetto al totale, si tratta sempre di cifre relativamente basse: 250 banconote false ogni milione di banconote.

«Black money»
Ovvero, i fondi in contanti nascosti al fisco e ammassati dagli evasori, l’obiettivo principale della demonetizzazione. In molti hanno finalmente iniziato a spiegare la differenza tra «black money» e «black economy»: la «black economy» è l’economia del sommerso, la somma dei soldi e dei beni non dichiarati al fisco, mentre i «black money» sono questi soldi e beni tradotti in contanti, in pezzi di carta. Decine di tecnici ed economisti, in questi giorni, hanno avuto modo di dichiarare sui media nazionali che i «contanti neri» rappresentino una cifra infinitamente piccola rispetto al totale dei beni generati attraverso la «black economy». L’economista Arun Kumar, in una lunga e bellissima intervista pubblicata da Scroll.in, spiega: « La black economy, che secondo i miei calcoli contribuisce al 62 per cento del Pil indiano, rispetto al Pil di quest’anno pari a 150mila miliardi di rupie ha generato 93mila miliardi di ricavi neri. La "black wealth" (ricchezza nera) potrebbe essere tre volte tanto, diciamo anche 300mila miliardi di rupie. Di questo, però, solo l’1 per cento viene tenuto in denaro contante, cioè 3000 miliardi di rupie (41 milioni di euro). Quei 3000 miliardi di rupie possiamo chiamarli "black money"».

Il restante 99 per cento dell’economia sommersa, investito in proprietà, azioni, gioielli, terreni o depositato all’estero, non viene scalfito nemmeno lontanamente dalla demonetizzazione.

Benessere in India, carte di debito e di credito, pagamenti online: chi può davvero andare cashless
Nonostante venga sbandierata come la soluzione a tutte le difficoltà, l’opzione di abbandonare il denaro contante e passare a un’economia cashless al momento è un lusso di pochi. Incidentalmente, i pochi che contano.

Partiamo da chi, in India, ha i soldi. Secondo un rapporto di Credit Suisse del 2014, ripreso da Scroll qualche mese fa, oggi in India il dieci per cento della popolazione controlla il 75 per cento della ricchezza totale del paese; di questo segmento, l’1 per cento più ricco ne controlla quasi la metà del totale. Significa che il 90 per cento di tutta la popolazione indiana si divide un quarto di tutta la ricchezza generata nel paese.

Questo dieci per cento – dall’upper middle class in su – è il target economico su cui costruire la crescita del paese: persone che hanno soldi, hanno abitudini di consumo più «moderne» e possono essere invogliati a spendere. Ragionevolmente, sono le stesse persone che dispongono di strumenti di credito e debito legati al proprio conto in banca, attraverso il quale eventualmente poter usufruire dei servizi di online banking e di pagamento istantaneo virtuale tramite e-wallet (che ha una penetrazione assolutamente risibile: la prima app per i pagamenti immediati online in India, Paytm, ha al momento poco più di 100 milioni di utenti, nemmeno tutti attivi).

Nel mese di gennaio la Rbi ha divulgato i dati relativi all’emissione di carte di credito e di debito in tutto il paese fino al maggio del 2015: 21.480.389 carte di credito, 570.813.794 carte di debito. Nel migliore – e irrealistico – dei casi, significa che oggi solo un indiano ogni 60 dispone di una carta di credito e che meno della metà hanno una carta di debito. La stima, realisticamente, è da leggersi drasticamente al ribasso, considerando che una sola persona può aprire più di un conto in banca e chiedere quindi più di una carta di credito o di debito, senza contare che il numero di carte di debito intestate a conti correnti «dormienti» potrebbe essere altissimo.

Sempre secondo la Rbi, nel 2015 si contavano in tutta l’India 1,440 milioni di conti correnti (non nominali, come sopra ci si può aprire conti in diverse banche allo stesso nome). Oltre il 40 per cento dei quali, secondo la Banca Mondiale, «dormienti», cioè non utilizzati per più di 24 mesi. Aggiungendo anche che il 40 per cento della popolazione indiana (totale: 1,3 miliardi di persone) è sotto i 18 anni, quindi non può intestarsi un conto, è difficilissimo capire effettivamente quante persone nel paese siano inserite nel sistema bancario nazionale. Ciò che non è difficile capire è che il governo, di persone che aprano conti in banca, ne vuole sempre di più.

Spingere chi ha soldi nel sistema bancario

Al netto di tutti i dati elencati qui sopra, pare evidente che l’obiettivo reale dell’amministrazione Modi, più che combattere seriamente la corruzione e l’evasione fiscale – lasciando, anche in questi tempi di demonetizzazione, diverse scappatoie – sia forzare la upper middle class a passare per il sistema bancario nazionale semplicemente eliminando, nel breve termine, tutte le alternative. Le banche e i «benefici» a loro annessi saranno sempre più inevitabili, con conseguenze non solo rosee.

La transizione, relativamente dolorosa per questo segmento di popolazione già digitalizzata, porterà direttamente a un aumento dei depositi nelle banche, un aumento di liquidità negli istituti a sua volta utile per finanziare grandi opere infrastrutturali e, come ammesso dallo stesso ministro delle finanze Jaitley, aumentare la capacità delle banche di prestare soldi. E, nel frattempo, incentivare i consumi tracciabili da banche e applicazioni internet, con l’effetto per nulla collaterale di poter accumulare una montagna di metadati utili ai fini del marketing, come notava su Catchnews Usha Ramanathan.

La scommessa, insomma, sembra concentrarsi sul valore di mercato della tracciabilità dei consumi, alla ricerca di un sistema attraverso il quale poter capire e organizzare in dati utilizzabili (vendibili?) a scopi di marketing le abitudini di milioni di consumatori indiani. La domanda, a questo punto, è: chi e come gestirà questa massa di dati?

[Scritto per Eastonline]