Ogni anno, il 4 maggio, in Cina si festeggia il Qingnian Jie (Youth Day), ricorrenza introdotta nel dicembre 1949, all’indomani della fondazione della Repubblica popolare, in memoria del Movimento di nuova cultura. Celebrazioni pubbliche, riflessioni a mezzo stampa e raduni giovanili nei campus universitari hanno continuato a tenere vivo il ricordo dei moti studenteschi, a cui il Partito comunista cinese deve le proprie origini. Complice l’attivismo della Lega della Gioventù Comunista, la principale organizzazione politica giovanile del paese che, vantando ormai oltre 88 milioni di membri tra i 14 e 28 anni, ogni 4 maggio organizza una cerimonia di premiazione per le “giovani eccellenze” nella Grande Sala del Popolo in piazza Tian’anmen.
Quest’anno, tuttavia, i primi preparativi suggeriscono un insolito basso profilo. Senza preavviso, alla fine di marzo il Consiglio di Stato ha rimesso mano al calendario annunciando un prolungamento del May Day (1 maggio) di tre giorni, così da assorbire la ricorrenza del 4 maggio in una più generica pausa vacanziera. Le ferie forzate – spiega il Financial Times – serviranno ad allontanare gli abitanti della capitale dai tradizionali luoghi di raccolta, mentre lo spazio digitale è stato “armonizzato” rimuovendo dalle piattaforme di Apple Music e QQ ogni riferimento musicale agli eventi del 1919.
Un vecchio dilemma assilla Pechino: celebrare lo storico evento a cui la leadership comunista deve le proprie basi politiche e ideologiche o relegarlo nell’oblio per aver inaugurato una stagione di proteste studentesche in grado di sovvertire l’ordine costituito? La scelta è resa anche più ardua dalla doppia cifra tonda. Il centenario del Movimento di nuova cultura coincide, infatti, con il trentesimo anniversario del 4 maggio 1989, quando – ispirate dai moti di inizio ‘900 – circa 100.000 persone marciarono nelle strade di Pechino, chiedendo libertà di stampa e un dialogo formale con le autorità di partito. Un mese più tardi le proteste sarebbe sarebbero state represse nel sangue in quello che oggi ricordiamo come il massacro di piazza Tian’anmen.
Dopo un secolo di stravolgimenti, questa riappropriazione schizofrenica del passato necessita più che mai un filtro politico attraverso cui selezionare gli elementi legittimanti, rimuovendo gli aspetti più scivolosi. Oggi, mentre la Cina di Xi Jinping riguarda alle umiliazioni ottocentesche dal secondo gradino della gerarchia mondiale, il nazionalismo del 4 maggio conserva la propria longevità come arma di distrazione di massa in tempi di difficoltà economiche e collante sociale davanti alle nuove sfide sul proscenio internazionale. “I giovani devono connettere le loro aspirazioni individuali al ringiovanimento della nazione e al socialismo con le caratteristiche cinesi”, ha sentenziato il presidente durante una recente conferenza organizzata dal Politburo per commemorare l’evento.
Ma, patriottismo a parte, tra le pieghe della storia si nasconde un’eredità ideologica incompatibile con il contesto attuale. Laddove il Movimento di nuova cultura si caratterizzava per una violenta spinta iconoclasta, la Cina di Xi proprio dal passato acquisisce legittimità, attingendo generosamente alla tradizione cinese confuciana come antidoto contro influenze esterne potenzialmente destabilizzanti. Stampa libera, democrazia e altri concetti tipicamente occidentali esaltati dalla generazione del 4 maggio sono stati ufficialmente demonizzati in un documento interno fatto circolare pochi mesi dopo la nomina di Xi a presidente. Le università, un tempo fucina di nuovi valori e rivendicazioni sociali, oggi vivono nel terrore di un’altra “rivoluzione culturale”: negli ultimi cinque anni, alla sospensione degli insegnanti ritenuti troppo liberali o eterodossi ha fatto seguito una campagna di arresti contro le frange studentesche più attive nel sostegno dei diritti dei lavoratori. Sorte analoga è toccata al movimento femminista, un tempo considerato indispensabile per la modernizzazione del paese. Confluito in un #metoo “con caratteristiche cinesi”, è presto stato ridotto al silenzio proprio grazie all’intervento concertato di autorità politiche e accademiche.
Oggi il 4 maggio può sopravvivere solo in una versione addomesticata. Xi Jinping lo ha spiegato senza giri di parole: “è necessario chiarire la relazione tra il partito e i movimenti giovanili, rafforzare la guida politica delle nuove generazioni, convincerle a sostenere volontariamente la leadership del partito, ad ascoltare e seguire il partito”. Il padre della letteratura moderna cinese, Lu Xun, lo avrebbe definito “nalazhuyi” (“grabbism” in inglese), prendere qua e là tutto quanto si ritiene sia utile. Gli studenti del Movimento di nuova cultura lo fecero mischiando sapere occidentale e cinese. La Cina di Xi lo fa smembrando il passato.
[Pubblicato su il manifesto]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.