Iniziano i negoziati con gli Stati membri per determinare o meno lo status di «economia di mercato» di Pechino. Dopo 15 anni dall’ingresso nel Wto al via la discussione nell’Unione. Il Pcc è certo di ottenere un successo, mentre l’Ue è divisa. Italia compatta e contraria.Nella giornata di ieri sono iniziati i negoziati tra Commissione europea e stati membri circa la possibilità di riconoscere la Cina come «economia di mercato». Si tratta di un primo passo di un lungo processo, che dovrà poi essere seguito con molta attenzione anche dal Parlamento europeo e dai singoli stati.
Un procedimento tutt’altro che scontato, su cui pesa anche l’ombra del severo «no» da parte degli Usa, desiderosi che l’Europa mantenga le tariffe e i dazi nei confronti delle merci cinesi.
Analogamente alcuni paesi europei, specie l’Italia, sottolineano i rischi di una tale concessione, su tutti per i settori siderurgico e tessile.
Pechino dal canto suo risponde in modo sicuro: se l’Unione europea vuole dimostrare la propria indipendenza da Washington, non può che compiere una scelta in favore della Cina. Il Partito comunista, del resto, considera il risultato come una naturale conseguenza dell’entrata del paese nella comunità economica internazionale. Nel 2001 — infatti — la Cina entrò nel Wto. Allora si diede per scontato che 15 anni dopo le condizioni mercantili del paese sarebbero cambiate. Venne così deciso che al termine dei 15 anni, la Cina avrebbe visto cambiare il proprio status di Non-Market Economy (Nme). Fino a qui tutti d’accordo.
Oggi, scaduti i 15 anni, vengono inesorabilmente fuori le differenti interpretazioni di questa premessa: secondo Pechino sarebbe automatico il riconoscimento della propria economia come un’«economia di mercato» (Mes, Market economy status).
Secondo gli Stati uniti e molti paesi europei le cose non stanno così: la Cina sarebbe ancora un paese «a forte attrazione mercantilista», ma non si sarebbe ancora sottomessa totalmente alle regole del mercato.
Il fraintendimento si basa sulle conseguenze che lo status di Mes alla Cina finirebbe per creare nel mercato mondiale: lo status di economia di mercato, infatti, sancita dalla investigazioni anti dumping, non permetterebbe a paesi altri di imporre tariffe compensative a pratiche commerciali considerate scorrette da parte della Cina. Secondo i detrattori, le politiche di controllo statale, di sussidi e di bassi costo del lavoro, terrebbero la Cina fuori dalla comunità di mercato. Due giorni fa, in procinto della discussione che sarebbe iniziata in sede di Unione europea, proprio gli eurodeputati italiani hanno espresso la propria opinione contraria.
Una riunione trasversale, convocata da David Borrelli, europarlamentare M5s e copresidente gruppo Efdd, ha raccolto esponenti degli altri gruppi come Salvatore Cicu (Fi-Ppe), Nicola Danti e Alessia Mosca (Pd-S&D), compatti nel dire che l’eventuale riconoscimento da parte della Ue di questo status avrebbe un impatto devastante per tutta l’economia europea, e in particolare per settori strategici del sistema Italia, come quello dell’acciaio, della meccanica, della chimica, della ceramica.
Secondo studi indipendenti presentati all’incontro, si andrebbe incontro a un calo del Pil Ue tra l’1 e il 2 per cento, e una drammatica perdita di posti di lavoro, tra 1,7 e i 3,5 milioni, meno 415mila solo in Italia. Posizione sottolineata anche dal gruppo dei socialisti: «La concessione automatica dello status di economia di mercato alla Cina sarebbe prematura» ha specificato il presidente del gruppo. «Data l’attuale situazione economica in tutto il mondo — osserva Pittella — chiediamo alla Commissione europea di procedere ad una valutazione completa e formale dell’impatto prima di prendere qualsiasi decisione in merito».
I cinesi dal canto loro contano soprattutto sul parere positivo di Gran Bretagna e Germania (più forte il primo sostegno del secondo) e nei resoconti dei quotidiani cinesi viene citato un lavoro interno al Parlamento europeo (One year to go: The debate over China’s market economy status heats up) che analizza i pro e i contro di un eventuale status di economia di mercato.
Si tratta di uno studio in cui gli elementi positivi e quelli potenzialmente negativi sembrano bilanciarsi. Fatta la tara, naturalmente, al fatto che i sussidi statali non sono una prerogativa cinese, come Pechino sottolinea in ogni occasione di questo genere.
[Pubblicato su il manifesto; foto credit: scmp.com]