In un futuro non troppo lontano, l’attivismo di Pechino in Africa potrebbe passare dalla costruzione delle infrastrutture ai pagamenti digitali. La virata rispecchia il progressivo riallineamento delle priorità cinesi. Dopo aver investito massicciamente in ferrovie, strade e progetti energetici, il gigante asiatico deve fare i conti con l’insostenibilità finanziaria di molte “cattedrali nel deserto” e le accuse di colonialismo in arrivo dall’altra sponda del Pacifico. Considerazioni che, abbinate all’erosione del surplus delle partite correnti, stanno spingendo la seconda economia mondiale verso nuove forme di business meno rischiose e orientate al rilancio dei flussi commerciali a doppio senso. Ovviamente, con un occhio di riguardo agli affari di casa, dove il manifatturiero rallenta a causa dell’indebolimento della domanda estera e della trade war con Washington. Il fintech sembra la soluzione giusta a tutto: aiuta a colmare le lacune del sistema finanziario africano, rilancia le attività dei colossi tecnologici cinesi già massicciamente presenti nel continente e tasta il polso dei consumatori locali nell’ottica di un futuro piazzamento del Made in China.
Protagonista indiscussa sarà la moneta digitale centralizzata a cui sta lavorando la People’s Bank of China: DCEP. Una versione elettronica dello yuan/renminbi, la divisa cinese, ma con ambizioni globali. Terrorizzato da una fuga di capitali, Pechino controlla e limita rigidamente le transazioni in uscita. Ma punta anche a rendere lo yuan una moneta internazionale in grado tanto di ridimensionare lo strapotere del dollaro quanto di rispecchiare più equamente il nuovo peso geopolitico della Cina sullo scacchiere mondiale. E la sua versione digitale si presta perfettamente a questo scopo.
Ne è convinto il tabloid nazionalista Global Times, secondo il quale “in termini di tecnologia, la valuta digitale cinese eccelle, sia per il livello di sicurezza che per transazione per secondo (TPS). Questo significa che supererà i concorrenti quanto a diffusione”, con “una velocità presumibilmente maggiore rispetto allo yuan globalizzato”. Secondo stime della Renmin University, il token cinese sarà in grado di attirare circa 2 miliardi di utenti internazionali nella prima fase di lancio, a partire dai paesi che sorgono lungo la Belt and Road, il progetto con cui Pechino punta a cementare le relazioni diplomatiche, stimolando i flussi commerciali e investendo in progetti infrastrutturali dove ce n’è bisogno. Gli stati africani sono proprio tra questi.
Si tratta di un terreno pressoché vergine: stando alla World Bank, due terzi della popolazione locale non ha un conto in banca. Una situazione che The Africa Report attribuisce a diversi fattori, tra cui il basso reddito, superstizioni religiose, gli alti costi bancari, la scarsa fiducia nelle istituzioni creditizie e l’elevato tasso di disoccupazione che costringe molti a ripiegare su lavori informali retribuiti in contanti. Al contempo, il continente ha tutte le caratteristiche per transitare verso il cashless: con una popolazione tra le più giovani al mondo, nel prossimo decennio l’Africa potrebbe arrivare a contare oltre 1 miliardo di persone in età lavorativa, mentre secondo proiezioni del Brookings Institution entro il 2030 i consumi interni raggiungeranno un valore pari a 2,5 mila miliardi di dollari.
La Cina parte già avvantaggiata. Chi naviga in rete lo fa spesso da smartphone e, verosimilmente, da dispositivi cinesi dato che il primo produttore del continente è Transsion, azienda di Shenzhen in testa alle vendite con il 33% del mercato locale, oggi a quota 250 milioni di device. Che Transsion guardi al fintech lo dimostra la recente partnership con Wapi Capital, fondo di venture capital keniota dedicato allo sviluppo di startup e servizi finanziari online. Traendo ispirazione da Apple, la società cinese fornisce i propri dispositivi con tanto di app preinstallate, aprendo le porte del continente alle innumerevoli piattaforme che popolano l’ecosistema digitale oltre la Muraglia. Secondo alcune indiscrezioni, oltre agli e-wallet sviluppati dagli istituti di credito, potrebbero essere proprio i due colossi dei pagamenti online WeChat Pay e Alipay a veicolare DCEP. Non solo. Considerando che gli appositi portafogli digitali funzionano anche senza connessione, la criptovaluta cinese permetterebbe di aggirare un ostacolo tecnico non da poco: infatti, a causa dei piani tariffari (ancora tra i più cari al mondo) e della mancanza di infrastrutture, alla crescita verticale delle vendite di smartphone in Africa non corrisponde un altrettanto diffuso utilizzo della rete internet.
Per il sito specializzato AMB Crypto, l’Africa si presta particolarmente agli esperimenti cinesi. Il gigante asiatico detiene il 14% del debito sovrano del continente e lo yuan digitale potrebbe andare a riempirne le riserve valutarie. Senza contare che la tracciabilità della criptovaluta aiuterebbe Pechino a controllare l’utilizzo dei lauti finanziamenti finiti, negli anni, per alimentare la corruzione dei governi regionali. A ciò si aggiungono risvolti in termini di marketing. Come dimostra il report annuale di WeChat, l’app ha accesso a dati preziosi per determinare le abitudini di consumo degli utenti, e con le prospettive di crescita del mercato locale la moneta digitale potrebbe rivelarsi uno strumento complementare per il monitoraggio degli acquisti in vista di una costante crescita delle esportazioni dalla Cina.
Certo, si tratta ancora di scenari futuribili. Nell’immediato, infatti, la banca centrale cinese non sembra intenzionata a distribuire DCEP fuori dai confini nazionali. A ciò si aggiunge un ostacolo tecnico non da poco. Alla crescita verticale delle vendite di smartphone in Africa non corrisponde un altrettanto diffuso utilizzo della rete internet; colpa dei piani tariffari (ancora tra i più cari al mondo) e della mancanza di infrastrutture. Dopo, ferrovie, strade e progetti energetici “made in China”, aspettiamoci dunque cavi in fibra ottica e tanto silicio.
[Pubblicato su Left]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.