In Cina la sanità, storicamente risorsa fondamentale per il Pcc, è ormai da anni motivo di contestazioni. La questione risale a ben prima dello scoppio dell’epidemia, ma il coronavirus ha evidenziato i difetti di un sistema sanitario ancora iniquo e disordinato.
Nel gioco di legittimazione che è la politica cinese, la salute collettiva è un elemento indispensabile al potere. Nel rievocare i meriti del comunismo maoista, i cinesi sottolineano spesso l’introduzione di un sistema sanitario nazionale e gratuito. All’epoca, la proprietà governativa di tutti i servizi sanitari permise un miglioramento record della salute della popolazione – con il crollo di tassi di mortalità infantile da 200 a 34 ogni 1000 neonati. Particolarmente di successo in questa fase, oltre alla completa gratuità dei servizi, fu la priorità data alle cure primarie e il ruolo dei «medici scalzi»: una versione cinese del medico di base, che forniva servizi essenziali porta a porta nei villaggi rurali.
Nella metà degli anni ’80 cominciò poi un nuovo periodo, caratterizzato, come per molti altri settori, dal brusco ritirarsi dello Stato con l’obiettivo di favorire l’economia di mercato. Il sistema sanitario di oggi, risultato di due diverse riforme nel 2008 e nel 2012, è un sistema ibrido che affianca ai principi di mercato l’impegno a fornire una copertura assicurativa sanitaria essenziale a tutta la popolazione. Un obiettivo in teoria da raggiungersi proprio entro la fine di quest’anno – la campagna governativa s’intitola China Healthy 2020 – ma che l’arrivo del coronavirus ha già compromesso.
L’epidemia ha colpito un sistema sanitario già difettoso: le ultime riforme hanno favorito la creazione di nuove reti ospedaliere, il rafforzamento di quelle esistenti e colpito, oltre ai «medici scalzi», tutto ciò che riguarda la sanità al di fuori degli ospedali. Senza questa rete di medici di base e medici generici, gli ospedali pubblici cinesi, già affollati in tempi normali, sono adesso al limite della loro capacità. Molti pazienti, soprattutto nelle prima settimane dopo lo scoppio dell’epidemia, hanno denunciato dimissioni forzate e diagnosi sommarie. Altri, in mancanza di un medico di base a cui rivolgersi in caso di sintomi lievi, sono stati ospedalizzati solo quando ormai già gravi.
Nel frattempo, gli ospedali internazionali privati, gli unici con personale anglofono e moderne attrezzature mediche, liberi di seguire il proprio fiuto imprenditoriale, hanno fin da subito respinto gli stranieri con sintomi sospetti reindirizzandoli agli ospedali pubblici al solo scopo di non perdere clienti.
Il dualismo tra la medicina occidentale e quella cinese – o come dicono i cinesi tra medicina moderna e tradizionale – è un altro elemento di confusione. Vengono usate entrambe, in maniera complementare: la medicina tradizionale per prevenire la contrazione o la ricomparsa della patologia; la medicina moderna per curare i sintomi già manifesti. Così, nel caso del nuovo Covid-19, ai primi sintomi vengono somministrati rimedi naturali della medicina tradizionale, affiancati poi da pratiche moderne – come l’incubazione – nei casi più seri.
Anche i ricercatori cinesi lavorano su entrambi i fronti, cercando i vaccini in laboratorio, ma anche esplorando pratiche e rimedi naturali. Ad esempio, Qingfei Paidutang è un decotto realizzato con una ricetta della medicina tradizionale che secondo gli esperti cinesi si sta dimostrando efficace nel curare casi accertati di Covid-19.
In tutto ciò, si è assistito ad una rivalutazione della figura del medico, che si carica oggi di significati diversi e, a volte, contrastanti. Da figura autoritaria, spesso legata agli ambienti di partito, ad antagonista. È il caso di Li Wenliang, il medico che per primo lanciò l’allarme e fu censurato: la sua morte ha colpito nel profondo l’immaginario cinese, al punto di provocare una serie di moti di reazione sui social.
Nel guardare alla Cina di oggi c’è quindi da interrogarsi sul futuro del suo sistema sanitario. Anche da qui passa il futuro dello statalismo cinese: e fallire nella tutela della salute collettiva è una svista imperdonabile per uno stato alla continua ricerca di legittimazione.
Di Silvia Frosina*
**Silvia Frosina, nata a Genova nel 1996. Già laureata in Scienze Internazionali, dello Sviluppo e della Cooperazione all’Università di Torino, sta completando un Master in China Studies tra la SOAS di Londra e la Zhejiang University. Ha collaborato con Il Manifesto e con il capitolo londinese di NüVoices, un collettivo editoriale che investiga questioni relative a identità e parità di genere in Cina e Asia.
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