Dopo lo schiaffo diplomatico dell’Asean. La giunta militare contrattacca, accusando i Paesi dell’organismo regionale di responsabilità nell’escalation di violenze. Poi la liberazione di 5600 persone arrestate dopo il golpe
Il generale Min Aung Hlaing, leader del governo golpista del Myanmar, ha detto ieri che gli altri nove Paesi, che col Myanmar fanno parte dell’Associazione regionale del Sudest asiatico (Asean), dovrebbero condividere la responsabilità di non aver contribuito a sedare la violenza che ha travolto la sua nazione da quando l’esercito ha preso il potere nel febbraio scorso. In un discorso trasmesso alla televisione di stato lunedi ha accusato i gruppi della resistenza di disordini mortali, dimenticando però le responsabilità dei suoi soldati a fronte di quasi 1200 dimostranti morti dal 1 febbraio scorso, giorno del golpe. Ha accusato l’Associazione di non voler riconoscere il carattere violento dell’opposizione e ha aggiunto che il suo governo sta cercando di ripristinare pace e stabilità.
È STATA LA SUA RISPOSTA alla mossa senza precedenti dell’Asean che ha deciso di non invitarlo al prossimo summit in agenda il 26 -28 ottobre cui parteciperà anche Joe Biden. Una teleconferenza che vedrà invece un invito per una personalità birmana «non politica»: un colpo al cerchio e uno alla botte perché è da escludere che si possa trattare di un rappresentante del governo clandestino di unità nazionale. Ma lo schiaffo alla giunta c’è e fa male: è la prima volta che i fautori della “non ingerenza” prendono una decisione tanto grave. Non espelleranno il Myanmar dall’Asean, ma non saranno i militari a rappresentarlo.
La decisione di venerdi scorso, dopo un lungo negoziato, è senza precedenti e si deve a più fattori: alle pressioni internazionali ma anche al rifiuto della giunta di dare la possibilità all’inviato speciale Asean – il diplomatico del Brunei Erywan Yusof, nominato in agosto per mediare – di poter incontrare in Myanmar detenuti politici come Aung San Suu Kyi o altri incarcerati dopo il golpe. Infine, il famoso piano in cinque punti, concordato mesi fa proprio col generale Min Aung Hlaing (che allora fu invitato in presenza suscitando polemiche) non ha fatto progressi.
NELL’ARENA DEI DIECI PAESI ce ne sono di più agguerriti – Malaysia, Singapore, Indonesia, e lo stesso Brunei, presidente di turno – e di più morbidi, come la Thailandia (che ha un premier ex generale) o il Vietnam che preferisce non disturbare i manovratori. Ma alla fine la decisione è stata presa all’unanimità e non deve aver scontentato nemmeno i cinesi, ritenuti i principali sponsor della giunta ma che in realtà vorrebbero la fine del continuo stato di agitazione, ormai una sorta di guerra civile, che danneggia anche i loro affari e la stabilità regionale.
Le manifestazioni intanto non si fermano: anche ieri una marcia di protesta a Mandalay è stata attaccata dai militari. Una ventina i dimostranti feriti mentre gli arresti sono almeno una decina. Mandalay ha visto proteste anti regime praticamente ogni giorno dal golpe militare del 1 febbraio, nonostante la durissima repressione militare.
Ieri i golpisti hanno anche liberato con un’amnistia oltre 5.600 detenuti, primo effetto forse della mossa, seppur tardiva, dell’Asean.
Di Emanuele Giordana
[Pubblicato su il manifesto]