Da una parte completano il ritiro, dall’altra rilanciano la loro presenza. Politici, diplomatici e militari degli Stati Uniti affollano l’Asia del Pacifico come di rado avevano fatto negli ultimi anni, mentre abbandonano l’Afghanistan. Non lasciano invece lo Stretto di Taiwan, dove venerdì sono transitate due navi: il cacciatorpediniere USS Kidd e un mezzo della guardia costiera.
La marina statunitense ha definito il passaggio “legittimo”, cogliendo l’occasione per definire l’episodio una “dimostrazione dell’impegno americano per un Indo-Pacifico libero e aperto”. La Cina, che ha condotto delle esercitazioni militari lo stesso giorno, ha come prevedibile condannato l’episodio definendolo un “atto provocatorio” e additando gli Usa come “la più grande causa di rischi alla sicurezza nello Stretto di Taiwan”.
L’azione, definita “normale” dal governo locale, è una risposta alle estese esercitazioni militari dell’Esercito popolare di liberazione del 17 agosto e intende rassicurare sulle intenzioni di Washington nei confronti di Formosa dopo che la caduta di Kabul aveva accesso la retorica di Pechino e portato la presidente Tsai Ing-wen a dichiarare che Taiwan non può “affidarsi solamente alla protezione altrui”.
Si tratta dell’ottavo transito di navi militari americane nello Stretto da quando alla Casa Bianca c’è Joe Biden e segue un accordo di cooperazione siglato a marzo tra la guardia costiera americana e quella taiwanese. A inquietare Pechino c’è anche l’apparente rafforzamento dell’allineamento operativo con il Giappone. La nave della guardia costiera che accompagnava la USS Kidd ha concluso nei giorni scorsi un periodo di addestramento con la giapponese Aso nel mar Cinese orientale. Tokyo, che a breve entrerà in campagna elettorale, sembra aver parzialmente messo da parte la tradizionale cautela strategica.
Il Partito liberaldemocratico del premier Yoshihide Suga ha tenuto un summit bilaterale sulla sicurezza con il DPP di Tsai, il primo di sempre nel suo genere. Nei prossimi mesi la temperatura delle acque dello Stretto resterà alta: a settembre sono previste tre vaste esercitazioni militari di tutte le componenti del triangolo Taipei-Pechino-Washington, mentre il possibile invito di Tsai al Summit per le democrazia di dicembre potrebbe essere, suggeriscono i media cinesi, come “un’opportunità storica per sorvolare il territorio di Taiwan”.
Ma, almeno per il momento, nessuno sembra avere la volontà di causare incidenti. Tanto che gli eserciti di Cina e Stati Uniti hanno riesumato dialoghi di alto livello (prima volta dall’avvento di Biden) sulla crisi afgana.
Si sta semmai assistendo a una serie di stress test incrociati, condotti sia a livello militare che diplomatico. Il Quad avvia le esercitazioni congiunte Malabar 2021 nel mare delle Filippine, Pechino risponde inviando due flottiglie a nord e sud del Giappone ed estende la “zona grigia” intorno all’isola con strutture militari e (nei programmi di Xi Jinping) anche civili. Contestualmente, Harris cerca di tranquillizzare il Sud-Est asiatico sull’impegno “a lungo termine” degli Usa nella regione.
La vice di Biden ha garantito che Washington non chiederà di “scegliere da che parte stare”, cosa che non vuole fare nessuno dei paesi dell’area. Ma ha anche denunciato le intimidazioni cinesi sulle dispute marittime e ha chiesto a Singapore e soprattutto Vietnam di “aumentare la pressione” su Pechino. Cosa che, in realtà, Hanoi non sembra intenzionata a fare. Quantomeno non allineandosi a Washington. Il premier Pham Minh Chinh abbia approfittato del ritardo nell’arrivo di Harris, causato da due possibili casi di cosiddetta “sindrome dell’Avana”, per incontrare l’ambasciatore di Pechino Xiong Bo e garantire che il Vietnam non entrerà in nessuna “alleanza anti-cinese”.
La vicepresidente degli Usa ha inoltre promesso un milione di vaccini contro il coronavirus ad Hanoi e ha annunciato l’intenzione di ospitare il summit dell’Apec del 2023. Ma a Washington serve elevare il proprio approccio a livello regionale, coinvolgendo le istituzioni Asean. Fornendo per esempio sostegno sull’antiterrorismo, tema tornato in cima all’agenda di diversi governo del blocco dopo la presa di potere di talebani e la recrudescenza jihadista. Indonesia e Filippine hanno una lunga storia di attentati e insorgenze islamiste. Nell’isola di Mindanao, per esempio, operano diversi gruppi islamisti, alcuni affiliati all’Isis. Ma anche Malaysia, Brunei e Thailandia temono che la vicenda afghana possa riaccendere i movimenti estremisti locali.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su Il Manifesto]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.