Nel 2014 Christie’s mise all’asta quello che è considerato il primo circuito integrato della storia, fabbricato da Jack Kilby per la Texas Instruments, nel 1958. Come in tante altre storie «tecnologiche» non è detto che Kilby sia stato proprio il primo; lui stesso sottolineò gli sforzi di tutto il mondo scientifico riguardo transistor e semiconduttori. Rimane il fatto che dal 1958 la Silicon Valley divenne il cuore della fabbricazione dei microchip, garantendo così agli Usa un predominio tecnologico indisturbato fino a poco tempo fa.
I MICROCHIP, infatti, benché minuscoli e spesso ignorati dai consumatori, sono fondamentali. Dalle auto, allo smartphone, dagli aerei, ai satelliti, la nostra vita è circondata da circuiti integrati.
Si tratta di quelle micro costruzioni che permettono il funzionamento di una immensa quantità di oggetti fondamentali nella nostra vita. E senza il costante e rapido progresso dei microchip non avremmo assistito alla straordinaria intrusività – e in molti casi utilità – dell’information technology nelle nostre vite.
Se negli anni passati tutto quanto era nuovo in termini di elettronica è arrivato da Usa e Giappone, la causa è da ricercare proprio nella loro produzione di circuiti integrati; un comparto che dipende e vive in simbiosi con la ricerca e lo sviluppo di nanotecnologie. E poiché questo genere di universo è regolato dalla legge di Moore – da Gordon Moore, co-fondatore della Intel – secondo la quale la complessità dei microcircuiti raddoppia ogni 18 mesi, saremmo ormai arrivati al limite fisico di quanti transistor si possono porre in un microchip. Rimane il fatto che morta o meno, la legge di Moore ha significato un gap non da poco per chi è partito dopo gli altri, come ad esempio la Cina.
I SEMICONDUTTORI sono il tallone d’Achille dell’attuale potenza tecnologica cinese: senza microchip prodotti in casa, Pechino è costretta a comprarli all’estero, ponendosi così in balia delle onde geopolitiche: quando gli Usa decisero di bloccare la vendita di queste componenti a Zte, la competitor di Huawei, misero in ginocchio il colosso cinese.
Problemi per tutto il comparto cinese sono arrivati a seguito di ulteriori divieti decisi dall’amministrazione americana. Per anni la Cina è rimasta indietro e oggi la sua posizione avvantaggiata nel campo dell’intelligenza artificiale potrebbe ovviare a questa arretratezza, grazie alla produzione di microchip basati sull’AI. Ma fino a quel momento la Cina dipende da Usa e da Taiwan.
La strategia utilizzata dalla Cina per arrivare a un’autosufficienza di questi piccolissimi componenti ci racconta molte cose del paese e della sua storia recente. Intanto ci permette di scorgere le problematiche legate al rapporto centro-periferia e i danni della corruzione che ha contraddistinto per molti anni il potere cinese. Allo stesso modo, però, ci conferma la ricerca costante di un metodo politico-economico per garantire una competitività internazionale alla propria industria di chip, di cui la Cina negli anni è diventata uno dei maggiori acquirenti.
GIÀ IN EPOCA MAOISTA i semiconduttori erano considerati fondamentali per una via cinese alla tecnologia. Il Consiglio di Stato della Repubblica popolare rilasciò un documento, «Schema per lo sviluppo della scienza e della tecnologia, 1956-1967», cui seguì l’istituzione di alcune fabbriche-pilota. Una di queste era a Wuxi, nel sud cinese, non lontano da Shanghai dove si sviluppò il primo grande centro territoriale sui microchip, come raccontato da Denis Fred Simon e Detlef Rehn in un libro del 1988 intitolato Technological Innovation in China: The Case of the Shanghai Semiconductor Industry.
A partire dal 1960, la fabbrica di Wuxi ha formato i principali esperti cinesi del settore, tanto da fare dell’industria dei semiconduttori in Cina un fiore all’occhiello del partito in quanto «molto più avanti di quelle di Taiwan e della Corea del Sud e almeno tanto sofisticata quanto il Giappone». Il metodo usato allora dalla dirigenza era quello tipico dello sviluppo industriale dell’epoca, con lo Stato a presiedere la ricerca e sviluppo e le aziende statali dedite a finalizzare i prodotti.
La Rivoluzione culturale (1966-1976) affossò questo procedere tecnologico cinese, causando il deficit competitivo che da allora è rimasto fino ad oggi (ricordate la legge di Moore?). Così negli anni 80 la Cina si trovò a dover ripartire quasi da zero a livello tecnico, pur potendo contare su nuove strategie economiche: all’attività dello Stato cominciarono ad affiancarsi altre possibilità come ad esempio il ritorno di molti cinesi che avevano studiato all’estero, mentre si cominciò, specie negli anni ’90, a inseguire la strada delle joint venture con l’intento di trasferire know how in Cina.
PER TUTTI GLI ANNI ’90, come scrive John VerWey nell’articolo Chinese Semiconductor Industrial Policy: Past and Present pubblicato sul numero del luglio 2019 del Journal of International Commerce and Economics, «il governo cinese ha perseguito un modello ibrido di sviluppo industriale, dotando alcune grandi aziende della maggior parte dei fondi disponibili in modo che potessero perseguire partnership con società straniere nel tentativo di accelerare il progresso. Le joint venture con Nortel, Philips , Nec e Itt sono iniziate alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90». Anche in questo caso il governo di Pechino pose l’attenzione sulla fabbrica di Wuxi, nominando l’intero piano di intervento «Progetto 908». Ma sia questo progetto sia il successivo, il «Progetto 909», naufragarono, senza dare i risultati sperati. Nonostante le difficoltà i passi successivi si sarebbero rivelati, invece, più forieri di successi.
Nel 2014 vengono pubblicate le «Linee guida per la promozione dell’industria nazionale dei circuiti integrati»: oltre ai «campioni nazionali» e alle joint venture Pechino scommette sugli investimenti esteri; rimase tuttavia il problema che molti degli accordi o delle acquisizioni non consentirono alle aziende cinesi di ottenere il know how necessario a colmare il divario.
Nel frattempo la Cina ha preso le sembianze di uno Stato sempre più tecnologico e la sua dipendenza dai semiconduttori si è fatta sempre più rilevanti. Arrivando ai giorni nostri, l’estremo tentativo è quello di Made in China 2025, un piano nazionale per l’automazione di settori strategici che ha dato nuovo slancio alla ricerca e allo sviluppo di semiconduttori.
LE RECENTI ASSUNZIONI di tecnici e ingegneri della Tscm di Taiwan, uno dei leader mondiali, dimostrano come la Cina non abbia ancora raggiunto i competitors, ma anche come oggi Pechino disponga di una nuova leva: ad attirare i taiwanesi, infatti, sono gli stipendi più alti che possono garantire le aziende cinesi. A questo si aggiunge un altro elemento che potrebbe contribuire a superare il problema: lo sviluppo dell’intelligenza artificiale.
Come sottolineato dalla rivista del Mit Technology Review dal titolo eloquente, China Rules, «Nuovi tipi di chip sono stati inventati per sfruttare appieno i progressi dell’AI, addestrando e gestendo reti neurali per attività come il riconoscimento vocale e l’elaborazione delle immagini. Questi chip gestiscono i dati in un modo fondamentalmente diverso dai circuiti integrati che hanno definito per decenni l’avanguardia dell’hardware. Significa reinventare i microchip per la prima volta da secoli». E in questa nuova corsa, la Cina non giocherà a rincorrere: «la sua forza nel settore dell’intelligenza artificiale e il suo accesso ineguagliabile alla quantità di dati necessari per addestrare gli algoritmi potrebbero dargli un vantaggio decisivo nella progettazione dei nuovi chip».
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.