Un anno e mezzo fa, in uno dei tanti siti che raccolgono notizie di lotte internazionali, era giunta una richiesta di sostegno in merito ad una campagna contro la cementificazione di un’area di un’isola di nome Makassar. Nel post si denunciava l’arresto per sovversione di un graffittaro che aveva scritto qualcosa contro lo stato. La firma era di un gruppo anarchico indonesiano. Il post non ebbe seguito e forse finì nella comune valutazione di molte cose asiatiche: con un misto di curiosità e di superiorità rispetto a quei messaggi così naif agli occhi occidentali. Invece, anche in Asia si muove un movimento, complicato, dalle mille differenze, che ora appare desideroso di raccogliersi intorno ad alcuni grandi temi. Precarietà, battaglie ambientali, media attivismo, network: in Asia sembra riemergere una partecipazione civile e politica, animata da gruppi di persone che decidono di lanciarsi in un progetto che riesca a coprire l’intero continente asiatico.
E’ l’obiettivo dell’Asian Media Activist Network: unire in un unico luogo virtuale, con periodici appuntamenti fisici, gli attivisti dell’intero continente. Con modalità, strumenti e metodologie profondamente radicate nelle culture asiatiche, seppure diverse tra loro, lasciando perdere per un po’ l’Europa, gli Stati Uniti, l’occidente e utilizzando semmai alcune trovate facilmente impiantabili sul proprio territorio. Ed ecco la Mayday (e una boutique di autoproduzioni ispirata da Serpica Naro) in Giappone e a Giakarta in Indonesia, l’anarchismo, le occupazioni e le lotte contro le basi Usa in Corea del Sud, i No Tav di Hong Kong, la battaglie delle anziane donne asiatiche rese schiave dall’impero giapponese durante la seconda guerra mondiale, la lotta dei produttori di banane nelle campagne Filippine e quelle del collettivo Urban Chaos, anarchici delle città, o ancora quella degli attivisti di Taiwan per preservare un antico ospedale per vecchi malati. Tante storie e una grande verità: in Asia qualcosa si sta muovendo, tra innovazione e proteste anti imperialismo americano (vai all’inferno tu e i tuoi aiuti, diceva uno striscione durante una protesta contro gli Stati Uniti dell’anno scorso in Indonesia).
Tra tradizione – in Giappone sono stati prodotti dei cd contenenti i riots del 68 nel Sol Levante e altre immagini di scontri tra studenti e forze dell’ordine – e modernità, il g8 dello scorso anno ospitato dal Giappone sembra avere dato nuova linfa ai movimenti underground asiatici: anarchici soprattutto, punk, precari, pink, lavoratori migranti, contadini, associazione dei diritti umani, femministe, media attivisti si sono ritrovati, confrontati con gli occidentali, raccontati le loro storie, condivise le proprie passioni e le difficoltà ad operare in paesi in cui la legislazione e la durezza dell’azione repressiva, spesso consente poca agibilità politica. E ora quando disoccupazione e precarietà cominciano a diventare temi forti anche da queste parti, si identifica per lo più nel processo comunicativo, di gestione della comunicazione, una grande responsabilità e allo stesso tempo una possibilità di scalfire i Grandi. E dal Giappone e dalla Corea del Sud, principalmente, parte il tentativo di un progetto comune, che raccolga le esperienze dei gruppi di attivisti, pochi, ma frizzanti, sparsi per l’Asia. Il movimento dei movimenti asiatico, almeno nelle speranze.
Grazie alle attività del manipolo di mediattivisti, si apre un universo spesso ignorato sia dai media mainstream, sia dalle realtà occidentali più underground, così impegnati nel tentativo di leggere la storia ufficiale degli altri, ignorando le storie minori, quelle che navigano nelle acque sotterranee delle città d’Oriente. E su internet nascono fanzine o vere e proprie riviste on line, come la recente Jalan, journal of asian liberation, composto da filippini, cinesi, coreani, cambogiani, pakistani e palestinesi o blog in cui vengono raccontate in presa diretta i tentativi di opporsi al mondo globale.
Contro la gentrification a Hong Kong
Gentrification, è una parola inglese che indica quel processo che espelle dai propri quartieri la popolazione storica a basso reddito, per sostituirla, dopo una riqualificazione del territorio, con una nuova popolazione ad alto reddito. In Italia il fenomeno è accaduto senza che quasi ce ne accorgessimo, così come la perdita di luoghi pubblici, il trionfo dei non luoghi, infine la resa sotto i colpi del concetto di «sicurezza». A Hong Kong tutto questo sta accadendo contemporaneamente: i mediattivisti locali si sono saputi inserire all’interno delle battaglie degli abitanti per partecipare alla pianificazione della città. Obiettivo, evitare la gentrification di alcune aree storiche di Hong Kong e la distruzione di alcuni moli popolari, i pochi spazi pubblici rimasti disponibili. Anche in questo caso gli attivisti hanno unito partecipazione sociale a volontà di denuncia. Nel caso della chiusura di un mercato popolare, per consentire ai ricchi che posteggiavano le auto in un garage vicino di scorrazzare senza troppi fastidi, un intero quartiere si è rivoltato. Più cresceva la partecipazione popolare, con tanto di presentazione di piano alternativo a quello del governo, più i videomaker, fotografi e giornalisti aumentavano le loro azioni. Simbolica anche la battaglia combattuta nel 2007 da un gruppo di attivisti, ragazzi, ma anche contadini e lavoratori migranti: in quel caso si trattava di lottare contro la chiusura del Queen’s pier, molo storico di Hong Kong. La scusa, il traffico. La verità, costruire una piccola base militare e stroncare un luogo in cui tradizionalmente sorgono movimenti popolari di contestazione.
Cristiani e travisati
Nelle Filippine gli anarchici non se la passano bene. La cosa non stupisce e per questo hanno girato un video in cui uno di loro parla con un ampio fazzoletto sul collo. Dal 2001 a oggi 900 attivisti, 80 dei quali giornalisti, sono stati uccisi o sequestrati. E’ la storia della battaglia anti repressione del gruppo Pinagkaishang Kolektiba, anarchici filippini sui generis. Hanno creato uno spazio sociale, che chiamano Autonomous Center e che ha uno slogan Workers of the World: Relax!: tra loro ci sono anche attivisti che si definiscono «cristiani anarchici». Fanno guerrilla gardening, partecipano alle attività di Food not bombs e curano le attività dello spazio, puntando molto sulla diffusione di letteratura e manualistica. Il centro è diventato un punto di ritrovo per molti ragazzini che altrimenti non potrebbero permettersi di studiare o di comprare penne, matite, quaderni. Lì trovano tutto, grazie all’aiuto di molti volontari. Dentro la libreria però, non si fuma, non ci si fanno le canne e non si possono neanche consumare alcolici.
Comfort Women e homeless in lotta
Durante la seconda guerra mondiale furono più di centomila le donne rapite dai giapponesi da territori diversi: Cina, Malesia, Vietnam, Indonesia, Corea. Lo scopo era quello di farle diventare schiave dei soldati giapponesi, liberi di abusarne sessualmente. Sono le comfort women. Alcune ragazze giapponesi hanno ascoltato il loro racconto e si sono appassionate alla causa. Hanno messo insieme un’organizzazione che lavora in alcune direzioni precise: rintracciare le donne sparse nel mondo, trovare il modo di farle ascoltare e lottare perché il governo giapponese si scusi e produca una forma di sostegno per donne anziane ormai, che spesso vivono in condizioni di miseria estrema.
Sempre dal Giappone arriva un’altra forma di organizzazione che ha portato alla luce un problema apparentemente poco noto, ovvero la vita dei senza casa delle grandi città giapponesi. Spesso occupano alcune zone dei parchi per costruire vere e proprie cittadelle: sono precari o disoccupati. Fino a poco tempo fa vivevano in case proprio vicino ai parchi che adesso occupano. Uno di loro, intervistato da un attivista giapponese, racconta che, appena ha tempo, si chiude in un internet point: può comunicare la sua storia e trovare un posto caldo dove dormire.
No Camp Humphreys
Nel mischione di attivismo degli ultimi anni, tra echi occidentali e peculiarità asiatiche, c’è stata anche un forte lotta anti Stati Uniti, in Corea. E i coreani, recentemente scossi da un incendio provocato dalla polizia in uno squat, in cui sono rimasti uccisi cinque occupanti e un poliziotto, non scherzano per niente. Attivismo, sperimentazione sui media, ma anche azioni dirette senza troppi ripensamenti. Un anarchico coreano ha raccontato la storia del villaggio di Daechu-ri, un centro abitato circondato dalla base militare Usa e preso di mira dal governo: dalla sua distruzione dipendeva la promessa fatta agli Usa di un ampliamento della base. Qualcosa che ricorda da molto vicino vicende italiane recenti. Gli abitanti del villaggio si rivoltano, arrivano in soccorso anarchici, pacifisti, anti capitalisti. Viene occupata la scuola e l’irruzione violenta della polizia riporta alla memoria altre similitudini italiane.