Non è la prima volta che in Cina si discute di democrazia: pensiamo al concetto confuciano di «governo del popolo» teorizzato da Sun Yat-sen e alla «dittatura democratica del popolo» di Mao, inclusa nel preambolo della Costituzione cinese. Per il Cmp, facendo riferimento alla «democrazia popolare», la quanguocheng minzhu di Xi attinge proprio alla definizione maoista, che presuppone il ruolo guida del Partito/Stato come rappresentante di tutte le classi sociali.
Rafforzare la legittimità interna del Partito e tirare la volata verso la leadership globale. E’ questo lo scopo del dibattito in corso in Cina che solo nell’ultima settimana ha visto il concetto di democrazia protagonista di un libro bianco, un rapporto sulle disfunzioni del sistema americana, un evento organizzato dal ministero degli Esteri e una conferenza internazionale, a cui hanno partecipato oltre 500 ospiti da più di 120 paesi. Minimo comune denominatore: la critica contro la definizione di democrazia imposta dall’Occidente, a cui Pechino oppone una versione che tenga conto delle condizioni sociali e culturali di ogni paese. Il principio un uomo un voto non è universale, sostengono i leader cinesi sottolineando come la democrazia sia un concetto che “evolve costantemente” e la cui efficacia può essere valutata – unicamente dai cittadini – in termini di “sviluppo”. Ne consegue l’eccezionalismo del modello politico cinese, che ha raggiunto la sua massima espressione nella gestione del Covid e nella recente sconfitta della povertà assoluta.
Sull’altro piatto della bilancia c’è ovviamente la democrazia decadente degli Stati uniti, messa sotto accusa per i crescenti episodi di razzismo e le perduranti diseguaglianze sociali. Senza contare le modalità irruente con cui Washington ha sponsorizzato la sua versione di democrazia, provocando guerre e “rivoluzioni colorate” in giro per il mondo. Un punto quest’ultimo ribadito di recente per giustificare la riforma elettorale di Hong Kong, l’ex colonia britannica considerata “troppo occidentale” e pertanto soggetto alla manipolazione di forze straniere.
L’offensiva ideologica di Pechino gioca di anticipo rispetto all’imminente “Summit for Democracy” di Biden. Fin dalle ultime fasi dell’amministrazione Trump lo scontro tra le due superpotenze si è spostato bruscamente sul versante ideologico. Non a caso è nel 2019, all’apice delle tensioni con Washington, che Xi usa per la prima volta il termine “whole-process democracy” (quanguocheng minzhu), poi diventato legge. Di quanguocheng minzhu Xi è tornato a parlare il mese scorso durante il suo primo videoconfronto con Biden. Secondo China Media Project (CMP), al 18 novembre 2021, la frase “democrazia popolare a tutto processo” era apparsa in 129 articoli sul People’s Daily, solo uno successivo al 1 luglio, data delle celebrazioni del centenario del PCC. In quella occasione Xi, affermò che “dobbiamo fare affidamento strettamente sul popolo per creare la storia, aderendo alla missione fondamentale di servire con tutto il cuore il popolo. . . . sviluppare una democrazia popolare onnicomprensiva”. Non è un caso che proprio allora il leader cinese abbia parlato di tramonto dell’Occidente e ascesa dell’Oriente. “La storia e la realtà hanno dimostrato che un paese è stabile se il suo sistema è stabile, e un paese è forte se il suo sistema [politico] è forte”, ha ribadito Xi tre mesi più tardi, esaltando il sistema delle assemblee popolari come il fiore all’occhiello della “democrazia con caratteristiche cinesi”.
Non è la prima volta che in Cina si discute di democrazia. Lo ha fatto in tempi relativamente recenti l’ex premier Wen Jiabao, invocando la dicitura denghiana di “democrazia con caratteristiche interne, un socialismo alla cinese”. Ma la sua storia è molto più antica: pensiamo al concetto confuciano di “governo del popolo” teorizzato da Sun Yat-sen, a “Mr Democracy” e al movimento del 4 maggio, o alla “dittatura democratica del popolo” (renmin minzhu zhuanzheng) di Mao”, inclusa nel preambolo della Costituzione cinese. La quanguocheng minzhu di Xi sembra attingere proprio alla concezione maoista di democrazia popolare “guidata dalla classe operaia e basata su un’alleanza tra lavoratori e contadini”. In questo senso – chiarisce il CMP – il significato di democrazia serve essenzialmente a rimarcare il ruolo guida del Partito/Stato come rappresentante di tutte le classi sociali; quindi, a difenderne la legittimità a cento anni dalla fondazione.
Nel corso di tale ridefinizione concettuale, cambia però il destinatario del messaggio, che non è più principalmente l’opinione pubblica cinese. Fuori dalla Grande Muraglia – soprattutto tra i paesi in via di sviluppo dove il suffragio universale coesiste con la perpetuazione di regimi autoritari – la democrazia cinese ha diversi estimatori. Così com’è popolare la posizione di Pechino a favore di un multilateralismo che rispecchi più equamente il peso delle economie emergenti sullo scacchiere globale.
Come spiega al South China Morning Post David Bandurski, the co-direttore del CMP, dopo aver acquisito forza militare ed economica, l’appropriazione del concetto di democrazia rappresenta uno degli ultimi ostacoli tra la Cina e la leadership globale. E’ il colpo di reni prima del sorpasso finale sull’Occidente. Obiettivo raggiungibile solo con un riconoscimento internazionale, a partire dalle nazioni amiche: negli ultimi giorni il tema della democrazia è comparso nei colloqui tra il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e gli omologhi di Russia e Iran, così come durante l’ultimo Forum Cina-Africa.
La necessità di competere su un terreno ideologico esogeno – come sta avvenendo contestualmente con la revisione del concetto di diritti umani – rivela però tutte le insicurezze di un paradigma che vorrebbe attingere soprattutto dalla tradizione cinese. Non è un caso che digitando la parola “democracy” sulla sezione forum di Baidu non compaia nessun risultato. Fuori dai circoli ufficiali, il dibattito politico è ancora tabù. D’altronde la libertà di espressione non rientra tra i requisiti propugnati dalla “democrazia con caratteristiche cinesi”.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su il manifesto]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.