Lo stesso giorno del primo test missilistico nordcoreano dell’era Trump, Alessandro Albana* si appresta a concludere i preparativi per il suo viaggio. Destinazione: Corea del Nord. Qui un resoconto della sua esperienza dal confine sino-coreano alla zona demilitarizzata.
La notizia del primo test missilistico nordcoreano nell’era Trump arriva in un giorno di metà febbraio, mentre confusamente riempio lo zaino per il viaggio del giorno successivo. La destinazione — a circa 24 ore di treno da Pechino — è Pyongyang, Corea del Nord.
Prima sosta del viaggio è Dandong, ultima città cinese al di qua del confine, da dove partirà il nostro treno per la capitale nordcoreana. Dandong rappresenta uno snodo importante, delimitato da un confine netto tra i due Paesi, segnato senza possibilità di equivoco dal fiume Yalu. Ma è anche territorio poroso e rigoglioso di attività economiche clandestine, capaci di attraversare il confine in entrambe le direzioni. Il tutto mentre la città vive uno sviluppo urbano relativamente accelerato, in cui le comunità nordcoreane si sono ritagliate una fetta di protagonismo economico, ad esempio nella ristorazione. Chi ha passato qualche giorno a Dandong racconta dell’esistenza di un vero e proprio distretto coreano, in cui i ristoranti di cucina tipica sono molto diffusi.
Dall’altro lato del confine, oltre lo Yalu, all’altro capo del ponte dell’amicizia sino-nordcoreana, c’è Sinuiju, cittadina di medie dimensioni, situata nella zona economica speciale che porta il suo stesso nome. È la prima tappa per chi entra da turista in Corea del Nord. A Sinuiju ci si ferma qualche ora per il controllo dei passaporti, oltre naturalmente a quello degli zaini e delle apparecchiature elettroniche. Procedure lunghe, ma tutt’altro che accurate. Durante i controlli una ufficiale trova un traduttore elettronico multilingue. Registra un saluto in coreano e la traduzione inglese che ne viene fuori, esatta, diverte tutti, ufficiale compresa.
C’è tempo per acquistare qualche snack, ma soprattutto birra e soju. Il treno riparte e, mentre attraversiamo le regioni settentrionali del Paese, qualcuno dà segno di una sbronza incombente. In questo clima di euforia mista a stanchezza, superiamo qualche villaggio e solo di rado centri urbani di una certa dimensione. Un solo treno al giorno collega Sinuiju a Pyongyang. Mentre lo sguardo fa l’abitudine a distese brulle e coperte di neve, qualcuno da fuori ci saluta curioso.
A Pyongyang arriviamo che è già buio. Fuori dal finestrino del nostro pullman, c’è una città molto diversa dalle rappresentazioni che vanno per la maggiore. E dunque qualche veicolo in circolazione c’è, e anche se di traffico proprio non si può parlare, le impressioni dei giorni successivi confermano l’idea che, con tutte le difficoltà del caso, la capitale e il Paese si muovano tra tradizione e tentativi di sviluppo a piccole dosi. Se questo non cancella le centinaia di chilometri di autostrade sgangherate e pressocché deserte che abbiamo percorso, rivela tuttavia come Pyongyang stia vivendo un certo dinamismo, magari limitato ma non per questo trascurabile. Nella capitale, le strade che percorriamo sono perlopiù illuminate decentemente; automobili e mezzi di trasporto pubblici — talvolta molto affollati — come autobus e tram non mancano. Ai lati delle strade, intanto, vanno diffondendosi chioschi e altre attività di vendita al dettaglio, fenomeno che secondo molti osservatori segnalerebbe una certa apertura del regime a forme di gestione e transazione economica private (o non completamente pubbliche). Camminando si scorgono alcuni negozi di generi alimentari, mentre ormai l’utilizzo del telefonino è apertamente diffuso. Mentre l’economia nordcoreana, pure strutturalmente molto fragile, dà segnali di crescita, piccole aperture all’iniziativa privata potrebbero essere strumentali a garantire una qualche forma di introito per la popolazione. Il tutto, naturalmente, nell’ottica del mantenimento della stabilità interna, mentre alcune previsioni parlano della possibilità di una nuova carestia nel Paese dopo quella che causò milioni di vittime a metà degli anni Novanta. Anche fuori da Pyongyang, intanto, qualche banco di frutta e verdura inizia a fare capolino.
Tra le strategie economiche su cui notoriamente le autorità nordcoreane si concentrano da tempo c’è l’accumulazione di riserve in valuta estera forte, cioè di euro, dollari statunitensi e yuan cinesi. Visitare la Corea del Nord comporta numerose e prolungate soste in negozi di souvenir, spesso piazzati in posizioni strategiche; il tentativo di incamerare valuta straniera attraverso la vendita di articoli di ogni tipo è ben più di un’impressione, mentre i prezzi spesso esorbitanti della merce in vendita sono certezza pura. Le transazioni si realizzano in euro, dollari o yuan, ma è la valuta cinese quella più spendibile. Spesso, tra l’altro, per spese minori si ricevono, come resto, piccoli oggetti di consumo come caramelle o dolci, con la scusa che il “negoziante” non ha il cambio. Ricordo di un caffè, ordinato sul treno di ritorno da Pyongyang a Dandong, per il quale ho ricevuto come resto tre gomme da masticare. “I’m sorry”, fu la ridente reazione della cameriera, niente resto.
Costretto tra le sanzioni internazionali e il drenaggio di risorse per le spese militari e lo sviluppo del programma nucleare, tuttavia, il Paese stenta a trovare una strategia di sviluppo economico propriamente detta. Le immagini satellitari che fotografano un Paese al buio diventano realtà quando, la sera, dal trentesimo piano del nostro hotel guardiamo Pyongyang dalla finestra. Ad eccezione di alcune strade (probabilmente giusto quelle percorse dal nostro pullman), di piazza Mansudae — dove campeggiano due imponenti strade di bronzo di Kim Il-sung e Kim Jong-il — e della Torre della Juche, la città è prevalentemente al buio.
In questo contesto, più di un anno fa il complesso industriale di Kaesong è stato chiuso dopo il ritiro unilaterale della Corea del Sud, in risposta al test nucleare portato a termine da Pyongyang a inizi del 2016. A Kaesong, città famosa per il suo ginseng, ci siamo rimasti meno di un giorno, portando con noi l’immagine di una città sonnecchiante e semideserta, ma che a giudicare dagli edifici deve aver attraversato momenti di relativo sviluppo.
Non manca il fuori programma e, a sorpresa, ci viene comunicata la possibilità di rendere i nostri rispetti al defunto leader Kim Jong-il nel giorno del suo compleanno, il 16 febbraio. Veniamo così guidati al Kumsusan Palace, il Palazzo del Sole, divenuto mausoleo con la morte di Kim Il-sung, nel 1994. Fu lo stesso Kim Jong-il a decretare che anche le sue spoglie fossero collocate al Kumsusan. Per visitare le due salme, poste in due parti diverse dell’edificio, non c’è tempo. Così omaggi e inchini, dopo aver passato controlli di ogni tipo (da quelli si sicurezza al dress code), questa volta vanno solo a Kim Jong-il.
Rimane aperto, infine, il capitolo della divisione nazionale. Dalla fine della sunshine policy in avanti, quella della riunificazione non può certo dirsi una priorità per i principali attori di questa partita, che da tempo mantengono posizioni cristallizzate. Otto anni di amministrazione Obama hanno visto l’Asia-Pacifico tornare al centro delle strategie statunitensi (Pivot to Asia) ma, sanzioni a parte, la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato non hanno portato avanti di un millimetro la dialettica con Pyongyang, preferendo piuttosto aspettare (di pazienza strategica si parla, non a caso); Pechino, seppure infastidita dalle imprese nucleari del vicino di casa e generalmente sempre più in linea con l’approccio sanzionatorio, preferisce comunque lo status quo. Da Seoul, infine, prima che gli scandali di queste settimane travolgessero la presidente Park Geun-hye, non risultano mosse degne di nota in termini di riavvicinamento con il Nord. Anzi, secondo indiscrezioni, parrebbe che persino la nordpolitik della presidentessa sudcoreana fosse influenzata dall’amica Choi Soon-sil. Intanto, il tema della riunificazione è sempre meno discusso tra i sudcoreani più giovani, i quali sono generalmente indifferenti alla questione, spesso percepita come lontana nel tempo e nello spazio. A Pyongyang, comunque, i giorni in cui il leader Kim Jong-il e il presidente sudcoreano Kim Dae-jong si incontravano nella capitale nordcoreana, nel giugno del 2000, vengono ancora celebrati come un momento di grande speranza e riportati con grande enfasi su giornali, manifesti, e fotografie.
Mentre dalla Corea del Nord piovono missili ogni qual volta il momento rende opportuno farlo (per celebrare festività nazionali, compleanni dei leader, etc), la comunità internazionale — Stati Uniti e Corea del Sud in testa — non fa che condannare e approvare sanzioni economiche. Nel groviglio attuale, però, è chiaro che qualcosa non va come sperato in alcune cancellerie, e mentre le sanzioni non fanno che rendere la vita più tragica per milioni di nordcoreani, a Pyongyang i programmi di sviluppo missilistico e nucleare vanno avanti e anche velocemente, dimostrando plasticamente la totale inabilità delle sanzioni a ostacolare i piani militari del Paese. In questo contesto, la recente sospensione dell’import di carbone nordcoreano da parte di Pechino non farà che rendere la situazione ancora più grave.
In un pomeriggio soleggiato — e dopo obbligatoria sosta per acquisto di souvenir — arriviamo alla DMZ per una visita a Panmunjom, luogo simbolo della separazione nazionale. Pochi metri più in là c’è la Corea del Sud. Al confine intercoreano mi ci ritrovo dopo quattro anni dalla mia prima e unica visita. Allora ero dall’altro lato del confine, a scrutare il nord. In quell’occasione, la guerra di Corea e il resto ci furono narrati da un soldato USA, cicerone di visitatori e curiosi. Mentre ricordo quei momenti guardo verso sud: aldilà del confine non si vedono soldati né turisti. Prima che ogni pensiero si manifesti pienamente, la guida ci chiama a raccolta, il nostro tempo è scaduto. Si riparte in direzione Pyongyang; lungo il percorso c’è tempo per un invito: “Verrà — ci dice la nostra giovane guida — il giorno della riunificazione, prima o poi. Per favore, quando tornate nei vostri rispettivi Paesi, supportate la causa della riunificazione coreana”.
Il mattino seguente lasciamo Pyongyang dopo i saluti di rito. Un treno ci riporta a Dandong, ripercorrendo al contrario il percorso fatto pochi giorni prima. Il paesaggio fuori, questa volta, non incuriosisce granché. In poche ore siamo di nuovo a Sinuiju, dove una ragazza cinese mette alla prova i nervi dei soldati nordcoreani cercando di dar loro fastidio. Dall’altro lato del confine ci aspetta Dandong, poi un treno notturno per Pechino, dove la notte trascorre tra troppe domande e maldestri tentativi di risposta.
*Alessandro Albana: sono un dottorando in Studi Globali e Internazionali presso l’Università di Bologna. Mi occupo di Asia orientale per ricerca e per passione. Attualmente vivo a Pechino per un progetto relativo al mio dottorato. In questa fetta di globo mi interesso delle questioni relative alla politica internazionale, alla storia e ai processi che attraversano la società e alla trasformazione del mondo del lavoro. Più in generale mi occupo di movimenti sociali, processi di cambiamento urbano e migrazioni. Collaboro con alcune testate online e mi diletto nella fotografia con mediocri risultati.