Intervista a Daniele Brombal, docente di “Lingua cinese”, “Società cinese contemporanea” e “Politica e società della Cina contemporanea” presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e autore di “Curarsi è difficile. Curarsi è costoso. Storia, politica e istituzioni della sanità cinese 1978-2013”
Partiamo dallo sviluppo diacronico del sistema sanitario nella Repubblica Popolare. Ci può tracciare una breve panoramica dell’evoluzione della sanità cinese da Deng a Xi?
Si distingue in tre fasi, che potremmo definire di crisi, riforma e consolidamento. La prima fu caratterizzata dallo smantellamento del sistema sanitario maoista, basato sulla fornitura universale dei servizi sanitari, finanziata direttamente da Stato, unità di lavoro e comuni popolari. Tutto avvenne in tempi rapidissimi: nelle campagne la quota di popolazione con una qualche forma di copertura sanitaria passò dal 90% dei primi anni Ottanta al 5% nella seconda metà del decennio. Diverse concause portarono a un cambiamento così repentino. Innanzitutto, le politiche di riforma economica e della produzione rurale. L’abolizione delle comuni popolari in particolare si tradusse nel collasso del sistema previdenziale e sanitario delle campagne, dove viveva la stragrande maggioranza della popolazione. A questo elemento si aggiunse la fiducia nel ruolo del mercato come allocatore ideale delle risorse sanitarie e del “bene” salute, una posizione in quegli anni diffusa in Occidente e promossa da molte organizzazioni internazionali. La classe dirigente cinese sperava che ritmi di crescita economica sostenuti avrebbero permesso ai pazienti di pagare di tasca propria i servizi. Accadde esattamente il contrario: emersero problematiche catastrofiche di accesso ai servizi sanitari e diffusissimi fenomeni di impoverimento a causa di malattia. Al contempo, ricomparvero focolai di malattie infettive ritenute eradicate. Ci vollero anni affinché Pechino decidesse di correre ai ripari, impegnata com’era a perseguire obiettivi di crescita industriale ed economica. Ciò avvenne nel 2002-2003, quando ebbe avvio la seconda fase, quella della riforma. Questa fu caratterizzata da un ri-orientamento del sistema verso una nuova centralità dello Stato e del finanziamento pubblico, quali garanti di un più equo accesso al diritto della salute. Pechino intraprese la riforma sia per dare risposta alla crisi sanitaria, che per garantire stabilità sociale attraverso l’estensione dei diritti sociali (secondo una prassi con precedenti illustri nella storia, a cominciare da Bismarck). Questa fase, durata poco meno di un decennio, si caratterizzò per il crescente investimento pubblico nelle assicurazioni sanitarie. L’era di Hu Jintao e Wen Jiabao vide una spettacolare crescita della quota di popolazione assicurata. Furono anche messe in atto le prime misure per regolamentare in modo più stringente l’erogazione dei servizi, al fine di evitare la sovraprescrizione di procedure diagnostiche e farmaci, pratica molto diffusa negli ospedali per garantirsi maggiori entrate finanziarie. La terza fase, quella del consolidamento, è iniziata una decina di anni fa ed è tuttora in corso. Prosegue sul solco tracciato nel periodo precedente, con un ruolo crescente dello Stato in termini di finanziamento pubblico e una regolamentazione più puntuale del settore. In anni recenti, hanno fatto capolino anche elementi di novità, in specie la progressiva integrazione delle casse mutue assicurative per i residenti urbani e rurali e una crescente attenzione riservata ai servizi di sanità di base e prevenzione.
Qual è lo stato attuale della sanità in Cina? Cosa ci racconta l’emergenza coronavirus del sistema sanitario cinese?
Il successo maggiore di questi ultimi due decenni è consistito nell’estensione della copertura assicurativa e nella riduzione della quota di spesa sanitaria pagata direttamente dall’utenza (spese cui in letteratura si fa riferimento con il termine out-of-pocket). Sono stati fatti passi avanti anche nell’introduzione di un sistema di farmaci essenziali, utile a spezzare gli incentivi di natura economica che per molti anni hanno portato gli ospedali a sovraprescrivere quei medicinali capaci di garantire un più elevato margine di profitto, a prescindere dalla loro appropriatezza. Ciò detto, la copertura assicurativa rimane spesso insufficiente a garantire l’accesso a cure costose e prolungate, a causa di premi e massimali ancora limitati. L’impoverimento a causa di malattia rimane un’ipotesi tutt’altro che remota per un cittadino cinese. Inoltre, permangono disparità fra residenti rurali e lavoratori urbani, questi ultimi beneficiati da sussidi più generosi. Un altro elemento critico è quello dei servizi sanitari di base, ancora deboli. La crescita del finanziamento pubblico negli ultimi vent’anni ha privilegiato i servizi di trattamento – specie in regime di ricovero ospedaliero – anziché quelli primari di prevenzione, educazione, medicina generale (i.e., i medici di famiglia). La crisi del coronavirus riflette almeno in parte questa carenza, poiché la sanità di base è fondamentale per prevenire e mitigare la diffusione di malattie trasmissibili. Ne è una riprova, per quanto limitata, il ruolo che proprio in questi giorni è stato affidato in Italia ai medici di base per assistere e indirizzare i propri assistiti, evitando che questi si precipitino senza ragione negli ospedali. In termini più generali, la crisi del coronavirus mette anche in luce l’assenza in Cina di una concezione sistemica di sanità, in grado di farsi carico dei singoli cittadini in ogni fase della propria vita, prendersi cura della collettività nel suo complesso e rispondere della salute animale e della salubrità ambientale. Quest’ultimo elemento è di importanza fondamentale, come sta dimostrando il coronavirus.
Come ricordava poc’anzi permangono disparità fra residenti rurali e lavoratori urbani. Quali fattori ne determinano l’esistenza?
Due fattori. Il primo è il permanere di risorse umane e strutturali minori nelle campagne rispetto alle città. Ciò comporta un problema di accesso fisico ai servizi. Il secondo fattore è dovuto al fatto che in Cina esistono diverse casse mutue sanitarie con diversi livelli di benefici e coperture. Quanti hanno un impiego formale nelle città hanno accesso a una cassa mutua cofinanziata da datore di lavoro e lavoratore, con un premio e massimali significativamente più alti rispetto a quelli delle casse mutue destinate agli altri residenti urbani (studenti, persone prive di un impiego formale, disoccupati) e a quanti vivono in campagna. Ciò comporta una minore accessibilità economica e una maggiore possibilità di impoverimento a causa di malattia per quanti godono di tutele minori, in specie i residenti rurali. Da pochi anni è in corso una graduale integrazione delle assicurazioni urbana e rurale, ma il processo richiederà ancora del tempo per dare risultati sensibili.
Che tipo di correlazione sussiste tra interessi economici e messa in opera di politiche sanitarie?
Una correlazione perversa. Durante il processo di riforma avviato una ventina di anni fa, gli interessi di aziende farmaceutiche e ospedali hanno ostacolato la messa in opera di politiche essenziali per garantire un maggiore controllo sulla spesa sanitaria. Così facendo hanno minato l’efficacia delle misure prese dall’esecutivo per estendere il diritto alle cure. Quello delle lobby nel settore sanitario è un fenomeno diffuso in Cina. Le stesse organizzazioni di categoria che tradizionalmente funzionavano da cinghia di trasmissione del potere politico ora vengono impiegate per sostenere interessi particolaristici di questo o quel gruppo d’interesse. Molti osservatori hanno a lungo sottovalutato la capacità delle lobby di incidere sui processi decisionali in Cina, sulla base dell’idea (fallace) che la Cina sia un paese politicamente monolitico, dove tutte le decisioni vengono prese dall’alto e da un unico centro di potere. In realtà la situazione è ben più complessa e il settore sanitario ne ha fornito una dimostrazione lampante.
Malattie cardiovascolari, diabete, ipertensione. Qual è la ricetta di Pechino contro le malattie croniche?
La crescente prevalenza di malattie croniche è tipica dei processi di transizione demografica ed epidemiologica. In Cina questi processi sono avvenuti in modo molto rapido, sia a causa della politica del figlio unico sia dello sviluppo industriale e socioeconomico avviato nei primi anni Ottanta, con il connesso cambiamento delle condizioni ambientali (i.e., inquinamento) e degli stili di vita. La ricetta di Pechino si è concentrata per lungo tempo sugli aspetti curativi, in linea con l’investimento sul sistema assicurativo. In anni recenti sono stati fatti anche i primi passi verso una gestione del problema più inclusiva degli aspetti di prevenzione. Tre anni fa è stato varato un piano di medio e lungo termine per la prevenzione e il trattamento delle malattie croniche, la cui messa in opera terminerà nel 2025. Nel piano viene data priorità ad aspetti quali la salubrità ambientale, l’educazione, la prevenzione e la diagnosi precoce, elementi che potrebbero segnare un cambiamento di rotta.
L’ultimo grande scandalo vaccini risale al 2018. Oltre 250mila vaccini “difettosi” furono prodotti e distribuiti dalla compagnia farmaceutica Changchun Changsheng Bio-technology. Cosa è stato fatto e cosa resta da fare sul piano della sicurezza dei medicinali?
Le autorità cinesi hanno emanato nel giugno scorso una nuova regolamentazione nazionale, finalizzata a rafforzare la supervisione sul processo di sviluppo, produzione, distribuzione e somministrazione dei vaccini. La nuova legge prevede pene più severe per quanti producano o commercializzino vaccini di bassa qualità o contraffatti, introducendo inoltre un meccanismo di compensazione per quanti ne subiscano i danni.
Come valuta il progetto “Healthy China 2030” varato nel 2016 dal governo cinese?
Sulla carta, il piano rappresenta un cambio di prospettiva importante, da un approccio dominato dalla dimensione del trattamento a uno in cui la prevenzione assume un ruolo centrale. Le linee attuative del piano emesse lo scorso anno dal Consiglio di Stato includono la lotta ai comportamenti a rischio alla base di malattie croniche e obesità. Il piano risponde dunque a molte delle sfide che la Cina si trova ad affrontare sul piano della salute. La sua applicazione potrebbe però essere complessa, a causa della carenza di capitali umani e organizzativi da mobilitare per l’iniziativa. Manca infatti in Cina quell’apparato socio-sanitario ben addestrato e distribuito capillarmente sul territorio tipico dei sistemi europei.
La riduzione della natalità, risultante dalla trentennale politica di controllo delle nascite, ha avuto numerose conseguenze sulla struttura per sesso e per età della popolazione cinese, dando vita a una società più vecchia, con pochi giovani e giovanissimi e con un grosso squilibrio tra i sessi. Nel 2007, la quota di giovani di età inferiore ai 15 anni non superava il 21 per cento (nel 1982 era del 33 per cento), mentre gli anziani di oltre 64 anni rappresentavano quasi un decimo della popolazione totale (nel 1982 erano meno della metà). Che impatto ha una società di questo tipo sul sistema sanitario cinese? Quali politiche di welfare sono state adottate nel corso degli anni per rispondere alle esigenze di una società che invecchia?
L’impatto è duplice: da un lato, la maggiore prevalenza di malattie croniche, tipico dei processi di transizione demografica. Dall’altro, la difficoltà di garantire assistenza socio-sanitaria adeguata – per quantità e qualità – agli anziani. Un tempo le funzioni di cura dell’anziano venivano demandate in buona misura ai famigliari. Tuttavia oggi, anche a causa delle più ampie trasformazioni socioeconomiche, ciò è sempre più raro. I nuclei famigliari sono più piccoli ed è sempre più difficile che diverse generazioni della stessa famiglia vivano le une vicino alle altre. Finanziamento pubblico ed erogazione di servizi per la terza età rimangono in Cina carenti e mal distribuiti, mentre gli standard qualitativi sono frammentari. In anni recenti, al fine di colmare la disparità fra la domanda (crescente) e l’offerta (limitata) di servizi di cura per l’anziano, Pechino ha deciso di incentivare il ruolo del privato, sia in termini di erogazione che di pagamento del servizio. Nonostante le autorità si siano impegnate a fornire sussidi per i gruppi più vulnerabili, è ragionevole ritenere che ciò comporterà degli squilibri in termini di equità del servizio.
Di Andrea De Pascale
[Pubblicato su il manifesto]