Ci sono alcuni milioni di persone, in Cina, che considerano Li Yang un eroe. Un superman. Appellativi strambi se si pensa a Li Yang come un semplice insegnante di inglese.
(In collaborazione con AGICHINA24)
Ci sono alcuni milioni di persone, in Cina, che considerano Li Yang un eroe. Un superman. Appellativi strambi se si pensa a Li Yang come un semplice insegnante di inglese e non, come lo descrivono invece i cortigiani del suo entourage, come un guru dell’apprendimento.
Quarantadue anni, genitori convinti maoisti trasferitisi volontariamente in Xinjiang, il signor Li ha attirato su di sé le luci della ribalta teorizzando ed applicando un metodo di apprendimento della lingua inglese da lui battezzato “Crazy English”. Studio sistematico della grammatica? Memorizzazione meccanica delle coniugazioni verbali irregolari? Soggiorni all’estero per migliorare la pronuncia? Niente di tutto questo! Lo si impara urlando a squarciagola.
L’approccio alla lingua è più epico che accademico: l’inglese è una bestia feroce da domare fisicamente, un nemico da soggiogare al proprio volere per fare il bene della madrepatria.
Il mix letale di tecniche di autoconvincimento, self-confidence building, cameratismo e biechi stratagemmi motivazionali non è dissimile dai corsi aziendali degli splendidi anni ’80 importati dai guru americani – i carboni ardenti, l’intreccio tra stima di sé e successo lavorativo, le frasi ad effetto disarmanti nella loro mediocrità… – sono stati rivisitati ed attualizzati in chiave sinocentrica, partorendo eventi mostruosi che negli ultimi 18 anni hanno coinvolto più di 20 milioni di studenti cinesi di ogni età, dagli alunni della scuola primaria ai colletti bianchi spediti dalle aziende a frequentare gli english camp del signor Li.
Ci si trova in parchi, stadi, alberghi, teatri o sale cinematografiche; si riceve il kit di Crazy English – valigettina con gadget e libri di testo – e quando sul palco compare il guru si parte: Li Yang urla nel microfono fissato all’orecchio la prima parola da imparare, il pubblico – solitamente nell’ordine delle migliaia – risponde in estasi mistica, così fino a completare la prima frase. Si urla tutti insieme per scongiurare la paura del fallimento, il terrore di non riuscire a master english – non learn, master! – incitati dalle frasi dello sciamano Li che a turno scimmiottano l’accento dei ricchi cinesi con titoli di studio all’estero – il maestro Li ha studiato sempre e solo al di qua della Muraglia – o spronano gli studenti all’apprendimento della lingua “perché noi abbiamo pietà dello straniero che non sa parlare il mandarino”.
L’inglese diventa così mezzo di rivalsa di un popolo che, come campeggia in bella vista sulla homepage di Crazy English vuole “far risuonare la voce della Cina nel mondo”. Compito che può assolvere chiunque, basta abbia quei 12000 yuan per accaparrarsi un diamond seat a uno dei camp settimanali di Li Yang.
Evan Osnos – corrispondente del New Yorker a Pechino che ha firmato il miglior ritratto del signor Li nel 2008 – racconta di un aspirante seguace di Crazy English che, resosi conto di non aver abbastanza soldi per pagarsi il viaggio di andata e ritorno e l’iscrizione al corso, pur di non perdere l’occasione della sua vita ha deciso di andare a vendersi il sangue.
Il metodo Li Yang è stato consacrato definitivamente nel periodo pre olimpico del 2008, quando il maestro ricevette dal Partito comunista cinese il mandato di insegnare l’inglese in pochi mesi a oltre 300 milioni di cinesi: seguirono corsi per volontari, lezioni all’Esercito di liberazione popolare sulla Grande Muraglia, appuntamenti nei cortili della Città Proibita, distribuzione di audiocassette ai tassisti delle principali città della Repubblica popolare, in uno sforzo titanico che valse al guru tanta fama quanta diffidenza. La vena nazionalista e cameratesca delle lezioni evento ha fatto suonare il campanello d’allarme del ritorno al razzismo, sentimento che in realtà non ha mai abbandonato la Cina post imperiale.
Incurante delle critiche, Li Yang ha via via ampliato il suo raggio d’azione, sconfinando in giudizi sulla società cinese odierna, sull’educazione e in aperte lodi al Partito tramite il suo account Weibo, massime delle quali si può trovare una collezione esemplificativa su Shanghaiist. Un assaggio: “La Cina è l’unica nazione al mondo che gli Stati Uniti non possono far vacillare o rovesciare. Questo perché abbiamo un grande Partito, un governo forte, un’economia sana e un esercito che non ha conosciuto la sconfitta” ma anche “E’ nostra responsabilità rendere tristi i nostri figli. Se sono sempre felici vuol dire che stiamo facendo qualcosa di seriamente sbagliato. A loro non serve nessun telefono, videogioco, mp3 o QQ [programma di messaggistica istantanea, nda]”.
La parabola di Li Yang rischia ora di infrangersi grazie all’intervento di sua moglie Kim Lee, americana, madre delle sue tre figlie.
La scorsa settimana la signora Lee ha postato sul suo account Weibo una serie di foto: fronte gonfia dalle botte, ginocchia viola, orecchio insaguinato.
Li Yang picchia la moglie davanti alle proprie figlie, ora la rete cinese lo sa.
Il commento della moglie punta dritto ai cardini del Li Yang-pensiero, che esorta i propri adepti ad “amare sbagliare, amare perdere la faccia”. La moglie ha declinato: “Amare perdere la faccia = Amare colpire mia moglie in faccia?”.
Dopo altri appelli virtuali con l’obiettivo di salvare il proprio matrimonio e chiedere aiuto professionale per i comportamenti violenti del marito, Kim Lee riesce ad avere una reazione pubblica di Li Yang. Pur ostentando una pronuncia inglese quasi perfetta – forse un po’ troppo marcata – Li Yang ha deciso di risolvere la questione nel metodo tradizionale, alla cinese.
Scuse pubbliche su Weibo ed ammissione di avere un problema comportamentale – il messaggio è stato ritwittato più di 20000 volte nel giro di poche ore – annuncio dell’inizio di una terapia specifica per controllare l’ira e donazione di 1000 yuan (114 euro) ad un’associazione di consulenza per donne maltrattate.
La questione ha sollevato anche un vuoto legislativo imbarazzante: ad oggi in Cina non esiste una legge specifica che tuteli le donne maltrattate all’interno delle mura domestiche, pur a fronte di centinaia di migliaia di casi simili segnalati dalla All China Women’s Federation nel 2007.
Non contento, Li Yang ha dichiarato stamattina alla stampa nazionale: “A volte picchio mia moglie, ma non avrei mai pensato che la cosa fosse resa pubblica da lei, siccome non è tradizione cinese esporre i problemi familiari ad estranei. Comunque la rispetto per aver cresciuto da sola tre bambine e per la passione per i suoi studenti”. Se lo dice il maestro…
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